Anna Karenina. Parte settima, capitolo quinto. Konstantìn Dmìtrievič Lévin assiste alla fantasia per orchestra Un re Lear della steppa. Lévin non è un intenditore di musica, tuttavia è un uomo curioso, sinceramente determinato a farsi un’idea sua dei brani «nuovi e animati da uno spirito di novità». Perciò è deciso «ad ascoltare con la maggiore attenzione e scrupolo possibili».
Ascoltare un brano di musica… E come si fa? Diremo una cosa banale: bisogna aprire bene le orecchie lasciando cadere gli altri sensi nella nebbia. Il mondo circostante deve sparire o almeno farsi sfondo.
Non c’è miglior lettore di colui che si lascia assorbire dalla lettura. E dove è meglio leggere? Non importa. Nella luce di un giardino, nel silenzio familiare della propria stanza, in un locale pieno di voci e odori: in ogni caso il mondo reale si fa sfondo per lasciare spazio al mondo dell’arte. Qui troviamo la Russia del XIX secolo, i tormenti di Anna, i dubbi di Lévin, le animate discussioni sulle condizioni del popolo. Poi ci sono io, il lettore, occhio divino e assoluto in questo mondo immaginario che non potrebbe esistere se non attraverso lo sguardo di chi lo immagina. Il lettore, dunque, l’oggetto d’arte e il mondo immaginario che emerge dal loro incontro.
Lévin lo sa bene. Mai lasciarsi distrarre dal gesticolare fastidioso del direttore o da «tutte quelle facce non prese da nulla, o prese dagli interessi più disparati, solo non dalla musica». Perciò, «se ne stava in piedi guardando fisso a terra davanti a sé, e ascoltava».
Che confusione! Che sofferenza! «Ogni momento cominciava, come se stesse prendendo forma l’espressione musicale di un sentimento, ma subito dopo si scomponeva in frammenti di nuovi inizi di frasi musicali, o a volte semplicemente in suoni tenuti insieme da nient’altro che non fosse il capriccio del compositore». Lévin è perduto, non sa a cosa rivolgersi, quale filo seguire. Tutto è confuso, aggrovigliato; tutto è uguale e, allo stesso tempo, diverso. Che il brano sia mediocre? No, probabilmente è un buon brano, ben congegnato. E, del resto, un buon lettore non si troverebbe certo spaesato di fronte a un brutto libro; direbbe “questo libro è indecente” e lo mollerebbe a metà. Il luogo è inadeguato? Cosa c’è di meglio di una sala da concerto, magari con una buona acustica? Allora sono gli esecutori i responsabili di questo caos! Forse, ma non per forza. Del resto, uno spettatore esperto riuscirà bene a separare il dramma eccellente dal suo mediocre attore. Ma dunque è tutta colpa di Lévin? A malincuore, non possiamo che rispondere di sì.
Colpa… Oddio, il termine è eccessivo e inadeguato. La maggior parte di noi è forse colpevole di non sapere il giapponese? No, certo che no. Molte sono le nostre conoscenze e molte le nostre lacune. Affliggersi per le seconde sarebbe tanto insensato quanto fare delle prime un motivo di vanto. Tuttavia, se decidessimo, di punto in bianco, di leggere Jun’ichirō Tanizaki in lingua originale, ecco che la nostra ignoranza si ergerebbe – non come una colpa – ma come un ostacolo insormontabile. Se non sai il giapponese, tutti quei segni neri che ricoprono la pagina bianca non hanno alcun significato. Tutto è uguale e, allo stesso tempo, diverso.
Il nostro spaesamento di fronte ai caratteri giapponesi è molto vicino alla perplessa spossatezza di Lévin alla fine della fantasia orchestrale. Si è spossati non perché il labirinto sia intricato, ma perché non si sa nemmeno come entrarci! Il materiale è ignoto; tutto è nuovo perché non c’è nulla di conosciuto. Quando si legge un libro in una lingua nota, si hanno delle aspettative; e solo così ci si può stupire di fronte a qualcosa di inaspettato. Una parola nuova dal sapore arcaico balza subito all’attenzione sullo sfondo di una serie di parole consuete e familiari. Ma quando tutto è nuovo, allora non si creano né aspettative né sorprese.
La perplessità mette tanto più a disagio Lévin quanto più fragorosi sono gli applausi che lo sommergono. Non riesce a capacitarsi dell’esplosione di entusiasmo suscitata dal brano appena ascoltato. Che stiano tutti fingendo spudoratamente? O forse conoscono un segreto che a lui non è stato rivelato? No, siamo convinti che gli entusiasti battitori di mani che circondano Lévin sono sinceri, ma allo stesso tempo non c’è nulla che li rende più consapevoli del Nostro. Battono le mani non perché abbiano colto ciò che sfugge a Lévin, ma perché non si sono nemmeno posti il problema di cercare qualcosa. Se ammiro i caratteri giapponesi e non penso che possono avere un significato, sarò pienamente soddisfatto della mia esperienza. Li apprezzerò alla luce delle mie conoscenze le quali, tuttavia, nulla hanno a che fare con il giapponese. Ogni linea concava mi ricorderà un’anfora, ogni composizione allungata verso l’alto una casa o un albero, qualche segno mi potrebbe anche far pensare ai caratteri latini. Queste scoperte mi riempiranno di una tale gioia che non potrò fare a meno di stringere le mani all’autore. Così la folla plaudente è sincera nella propria euforia perché il brano ha evocato dipinti e poesie celebri, scene di vita quotidiana, emozioni tanto forti quanto inspiegabili.
Talvolta l’autore stesso arriva in soccorso del suo pubblico e intitola il brano Un re Lear della steppa. «“È straordinario!” disse la grossa voce di basso di Pescóv. “Salve, Konstantìn Dmìtrič. È particolarmente evocativo e scul-toreo, come dire, e riccamente colorato il punto in cui si sente l’avvicinarsi di Cordelia, in cui la donna, das ewig Weibliche, entra in conflitto col fato. Non è vero?” “E che cosa c’entra Cordelia?” domandò timidamente Lévin, dimenticando completamente che la fantasia aveva per tema un Re Lear nella steppa. “C’è Cordelia… ecco!” disse Pescóv, tamburellando con le dita sul programma di raso che aveva in mano, e passandolo a Lévin. Solo a quel punto Lévin ricordò il titolo della fantasia e si affrettò a leggere nella traduzione russa i versi di Shakespeare, stampati sul retro del programma. “Senza questo non si può seguire”».
Perché Pescóv è così entusiasta e sicuro di sé? Perché non è spossato e perplesso come Lévin? Perché si è convinto che un titolo e qualche verso è quanto basta per rendere intelligibile un brano di musica. Come il “lettore” che vede alberi e casette nei caratteri giapponesi, così Pescóv cade nel paradosso di ascoltare i suoni attraverso le parole, di spiegare un linguaggio sconosciuto attraverso un linguaggio conosciuto. E nell’analogia pensa di averne colto il senso.
Andate da Pescóv, raccontategli l’inizio di Anna Karenina e poi chiedetegli di proseguire lui il racconto. Scommetto che vi proporrebbe decine di possibili continuazioni! Questo perché il linguaggio della parola gli è familiare. Ora fategli sentire i primi tre accordi di un brano di musica. Come andiamo avanti? Non solo non saprebbe rispondervi, ma giudicherebbe la domanda priva di senso. Per chi mi hai preso? Per un compositore? Quello che mi chiedi è per “addetti a lavori”. Io sono solo un ascoltatore! No, mio caro Pescóv, tu non sei un ascoltatore. Tu parli il russo, leggi Shakespeare, osservi e giudichi la politica e la società nella Russia di Alessandro II… Ma di musica ti manca ogni contezza. Metti da parte Shakespeare e Cordelia e, per una volta, ascolta davvero. Ti sentirai spossato come Lévin, certo, ma sappi che questo è il primo passo per diventare un vero ascoltatore.
Per essere dei buoni lettori bisogna essere dei potenziali scrittori. Per essere degli ascoltatori, bisogna un po’ essere musicisti.