Un approfondimento su Kim Ki-duk
Torniamo con un nuovo articolo dedicato al cinema sud coreano e in particolare al regista Kim Ki-duk. Nella scorsa puntata avevamo parlato di Lady Vendetta.
Dopo una pausa durata quattro anni, in cui lavora a due esperimenti personali (Arirang e Amen), nel 2012 Kim Ki-duk torna con Pietà, opera vincitrice del Leone d’Oro a Venezia.
Il film ha per protagonista Kang-do, uno strozzino senza pietà che vive in solitudine. Un giorno compare nella sua esistenza Mi-sun, donna che sostiene di essere sua madre, rea di averlo abbandonato in fasce. Tra i due inizia così un complesso rapporto che si evolverà in maniera inaspettata.
Con Pietà, Kim Ki-duk realizza una tragedia ambientata in uno dei quartieri popolari di una grigia Seoul, abitato da reietti e caratterizzato per la sua fatiscenza.
La precarietà del contesto è riflessa nei personaggi che popolano il mondo diegetico (fragili, precari, mutilati, abbandonati a loro stessi) e il cromatismo spento e marcescente, che caratterizza il quartiere, è rappresentato nei loro abiti e in quelli di Kang-do, spesso vestito di un verde estinto.
Attraverso le vicende di questi individui, Kim Ki-duk compie una forte critica nei confronti della società coreana contemporanea e delle sue istituzioni, responsabili di abbandonare gli ultimi lasciandoli in balia dell’illegalità.
Kang-do è esso stesso un reietto, allegoria e prodotto del contesto, il quale sembra abbandonare uno stato di solitudine apatica solo quando Mi-sun entra nella sua vita.
Pietà è un film caratterizzato da stilemi che si ritrovano in molte opere del regista.
Innanzitutto è una pellicola dai forti contrasti, già rintracciabili nelle corporeità dei due protagonisti. Kang-do è possente, Mi-sun minuta; lui è vestito con colori smorti, lei indossa spesso un rosso acceso.
Tutta la narrazione è così caratterizzata dalle opposizioni vita-morte, amore-odio, gioia-disperazione, purezza-sporcizia, luce-ombra, bontà-crudeltà, ordine-caos; elementi che però non lottano tra loro ma si nutrono a vicenda. Questo perchè Ki-duk rifiuta il dualismo manicheo tra bene e male e compie una riflessione in cui filosofia cristiana e morale buddista si intrecciano.
Il male non è quindi qualcosa che si oppone al bene ma è piuttosto la sua assenza ed in ogni caso aspetto connaturato all’esistenza. Così come lo è la violenza, che in Pietà è pervasiva ma quasi sempre relegata nel fuori campo e suggerita attraverso i suoni off (dinamica presente anche all’interno del mondo diegetico, basti pensare a quando Kang-do ode al cellulare i lamenti di Min-su senza poterne vedere cause ed effetti).
Ai temi appena indicati, Kim Ki-duk aggiunge una profonda riflessione riguardo il rapporto madre-figlio e l’incesto, la vendetta, l’espiazione e la pietà, sentimento, quest’ultimo, che è lo stesso che l’autore prova nei confronti dei suoi protagonisti che nonostante la freddezza che caratterizza la messa in scena, sono rappresentati a tratti con uno sguardo partecipativo, definibile appunto come pietoso.
Kim
Ki-duk per ritrarre i suoi personaggi, si serve di inquadrature
principalmente statiche (i rari movimenti di macchina sono realizzati
tramite zoom) che in diversi casi presentano angolazioni dal
basso.
L’autore quindi non giudica ma osserva una vicenda che si
caratterizza anche per le situazioni eccessive, iperboliche,
inverosimili; utilizzate per creare un’opera simbolica che comunica,
più che con le parole, attraverso le immagini e le figure retoriche.
A questo proposito è emblematica l’associazione che Kim Ki-duk fa
tra gli animali e i personaggi, entrambi imprigionati e costretti a
poter evadere dalla propria condizione solo attraverso la morte. In
tal senso è chiara la scelta di utilizzare spesso piani ravvicinati,
colmati dal volto dei personaggi e da una comunicazione che avviene
spesso, ma meno che in altre opere, tramite sguardi e silenzi.
Le modalità appena elencate sono utilizzate da Kim Ki-duk per realizzare un’estetica semplice, anti-spettacolare, imperfetta ma funzionale alla narrazione e che procede inesorabile sino al finale. E questo senso di ineluttabilità, che cresce nel corso della narrazione, non dipende da un destino già scritto ma dalle libere azioni che i personaggi decidono di compiere e che conducono ad inevitabili conseguenze. Processo karmico di azione e reazione che, come suggerito dal finale poetico è destinato a perpetuarsi e non può essere interrotto dalla semplice volontà del singolo.
Si può quindi concludere che Pietà sia un film che dato il suo alto tasso di autorialità è inutile cercare di inquadrare in uno o più generi. È un’opera simbolica, avvincente ed originale che pur essendo violenta e a tratti disturbante, non scade nel cattivo gusto e nell’eccesso fine a se stesso.
Kim Ki-duk tratta temi complessi non curandosi che ciò che narra sia sempre credibile e coerente e nemmeno si preoccupa che la rappresentazione sia formalmente perfetta. Il suo scopo è quello di comunicare con lo spettatore, stimolarlo attraverso un’opera estremamente personale ma che, non declinando nel manierismo e nell’autocelebrazione, onora appieno il mezzo cinematografico.