Dalle ceneri della distruzione, tensione fra terra e cielo: la danza Butō
Secondo l’I Ching l’esagramma 57, dal titolo Il Mite, auspica un tempo di lento e sicuro incedere, invisibile e vincente. Il corpo di un danzatore Butō ricerca la sua natura originaria. È un lavoro umile e perseverante che si ottiene raffinando pazientemente la materia, separando il puro dall’impuro. La sua forza o qualità è quella dell’aria, dello spirito. Il mite e penetrante vento raggiunge le vette più elevate. La ricerca della perfezione del corpo intesa come perfezione dello spirito del corpo.
Nella cultura giapponese tradizionale il corpo è il luogo dove scorre la vita, non solo delle persone o delle creature viventi, ma «la vita che scorre in tutti gli esseri in un mondo dove ogni cosa è viva»: parole di Hiroyuki Noguchi. Tale pensiero deriva dalla diffusione delle pratiche ascetiche dello Zen e dello shintoismo. Per i giapponesi il corpo non è semplicemente uno strumento da utilizzare nella vita quotidiana ma è un luogo in cui può essere ricevuto l’astratto. «Il qi è la grande forza che sottende la vita, è la vita stessa. È la vibrazione dell’universo. È l’intero universo nel suo manifestarsi». Il qi è soffio, è energia che muove, trasforma. In questa visione, il concetto di azione e movimento esula da spiegazioni puramente meccaniche. Lo Zen è la via della non-azione. Il movimento quindi non è muscolare e volitivo ma accoglie questa energia e il corpo è «una barca che cavalca questa corrente». La perfezione del corpo è la perfezione dello spirito del corpo e la danza ne è la sua verità.
Per capire il Butō bisogna capire la cultura del corpo, cosa significa per la cultura tradizionale giapponese avere e muovere un corpo. Per capire il Butō bisogna esplorare la vita di chi ha dato vita al Butō e al tempo stesso conoscerne l’humus storico.
Il Giappone moderno non ha radici culturali proprie. Nasce nei primi del Novecento dopo la restaurazione imperiale in epoca Meiji, subisce un’accelerazione nel secondo dopoguerra portando con sé l’ombra di una profonda crisi di identità. L’occidentalizzazione forzata avvia un progressivo processo di smantellamento dell’idea di corpo, che rappresenta l’ossatura profonda della cultura tradizionale giapponese.
I fondatori del Butō sono Kazuo Ōno e Tatsumi Hijikata. Kazuo Ōno nasce a Hakodate, nell’isola di Hokkaidō, nel 1906. Dopo il diploma diventa insegnante di educazione fisica in una scuola superiore di confessione cristiana. Qualche anno dopo si fa battezzare abbracciando la fede protestante. La sua vita cambia nel 1929 quando assiste alla danza della famosa Antonia Mercé, chiamata La Argentina. Dopo quell’esperienza inizia a studiare danza e nel 1933 conosce Baku Ishii, tra i più importanti danzatori di contemporanea giapponese.
Baku Ishii aveva studiato in Germania con Mary Wigman, pioniera della danza moderna. Kazuo Ōno continua i suoi studi con Takaya Eguchi, altro allievo di Mary Wigman, ma deve interromperli a causa dello scoppio della Seconda guerra mondiale. Durante la guerra ricopre responsabilità di ufficiale e capitano nei territori della Cina e della Nuova Guinea per otto anni. Viene catturato e fatto prigioniero in un campo di concentramento dall’esercito australiano ed è infine liberato dopo un anno, al termine della guerra.
Ma qual è la situazione del Giappone alla fine della guerra? Le due bombe atomiche gettate su Hiroshima e Nagasaki, la morte di milioni di civili e militari, la distruzione di una cultura e la sottomissione al potere dei vincitori, per il consumo di denaro, corpi e anime… Il Giappone è l’angoscia e il terrore di Guernica, la fame e l’umiliazione, l’orrore e il trauma. Ci vogliono anni perché il Paese si risollevi dalle macerie del passato, passando anche attraverso una massiccia occupazione americana, che porta con sé abitudini e modelli culturali dettati dal cinema, dalla musica e dalla moda del tempo.
Tornato in Giappone dopo la guerra, Kazuo Ōno riprende il suo lavoro di insegnante di educazione fisica e i suoi studi di danza sotto la guida di Eguchi. L’esordio professionale avviene soltanto nel 1949, a quarantatré anni, con First Flower of a Linden Tree, al Kanda Hall di Tokyo. Dello stesso anno sono gli assolo Devil Cry e Tango e altri pezzi con Mitsuko Andō, allieva di Takaya Eguchi.
Tatsumi Hijikata nasce nel 1928 a Tohoku, nella costa nord-occidentale dell’isola di Honshū, in una famiglia numerosa. Nei primi del Novecento la regione è ancora un territorio selvaggio, ricco di tradizioni mistiche e ascetiche, profondamente povero e agricolo. Cresce nell’insoddisfazione della monotona vita di campagna finché a tredici anni vede giungere la guerra con ogni sua barbarie e miseria.
Finita la guerra, a diciassette anni, comprende la sua vocazione: diventare un danzatore. Colpito da diversi incidenti, il più importante dei quali lo danneggia alle gambe lasciandone una più corta dell’altra, non si demoralizza. A diciotto anni entra in una scuola di danza che segue un metodo di ispirazione espressionista tedesco, sotto l’insegnamento di Katsuko Masumura, allieva di Takaya Eguchi. Nel novembre del 1949 riceve la folgorazione assistendo al debutto di Kazuo Ōno, che definisce un danzatore di «traboccante lirismo» e contagioso come un «veleno mortale». Dopo tre anni prosegue la formazione a Tokyo con Mitsuko Andō, grazie al quale può finalmente incontrare Kazuo Ōno. I due danzano insieme nel 1954 in Karasu, che rappresenta il debutto per Hijikata.
Il Giappone nel decennio successivo è terra feconda per le avanguardie dell’arte. Esse vengono alimentate dalle riforme di apertura culturale attuate dal governo, dalle prese di consapevolezza e dai movimenti di ribellione dei giovani.
La collaborazione tra i due prosegue con Rojin To Umi (Il vecchio e il mare) che va in scena nell’aprile del 1959, uno spettacolo di Kazuo Ōno insieme al figlio Yoshito Ōno. I consigli e i suggerimenti di Hijikata diventano fondamentali, tanto che in alcuni documenti viene citato come direttore di scena.
Hijikata dopo quell’esperienza chiede a Yoshito di collaborare per un suo progetto: creare una danza originale, partire da zero, allontanarsi dagli stili che arrivano dall’Occidente dove il corpo segue ritmi differenti e obbedisce a differenti imperativi etici e morali. Una danza senza partiture da seguire, che considera il corpo non tanto come mezzo espressivo ma come oggetto di ricerca in sé.
Chiede a Yukio Mishima, il più importante e controverso scrittore dell’epoca, il permesso di mettere in scena una sua opera. Pubblicato nel 1951, Kinjiki (Colori proibiti) è un romanzo il cui tema è l’omosessualità. Mishima accetta, intrigato dalla personalità di Hijikata e felice di sostenere lavori sperimentali.
I due danzatori provano tutte le notti per un mese senza partiture fissate. Hijikata invita Yoshito a parlare di se stesso e a cercare un corpo completamente diverso da quello allenato dalla danza contemporanea. A ispirarlo sono gli esercizi appresi con il coreografo Nobutoshi Tsuba: una serie di posture fisse o “attitudini danzate” scandite dall’interruzione del flusso di movimento tipico del mimo, dove si enfatizza il busto togliendo valore all’espressività del volto e delle braccia. Il nuovo allenamento lavora sulla tensione del corpo e tra cielo e terra donando presenza al corpo. Senza una coreografia si lavora sulle improvvisazioni, che nascono da azioni semplici e quotidiane fatte da gesti precisi e intensi.
Kinjiki va in scena al Daichi Seimei Hall il 24 maggio 1959 come esibizione all’interno del programma Nuovi talenti, organizzato dall’Associazione Giapponese Danza Moderna.
«Nell’oscurità Yoshito appare sul palco con addosso solo un paio di calzoncini chiari attillati e una cravatta nera legata attorno al collo. Lo chiameremo il ragazzo. Hijikata lo raggiunge correndo in cerchio mentre stringe un pollo fra le mani, porta un paio di pantaloni scuri, la testa rasata, torace e volto spalmati di grasso nero. Lo chiameremo l’uomo. Allora il ragazzo, corpo teso e irrigidito, avanza lungo una stretta fascia di luce guadagnando il centro del palco, dove l’uomo l’attende nel buio. Quando sono l’uno di fronte all’altro si guardano lungamente negli occhi. Poi l’uomo agita con forza il pollo nella luce mentre quello sbatte all’impazzata le sue ali bianche. Il ragazzo prende il pollo e lo avvicina al petto, quindi se lo mette in mezzo alle gambe e lentamente si accovaccia stringendo l’animale tra le cosce fino a soffocarlo. Il sangue zampilla, il pollo resta a terra senza vita ai piedi del ragazzo, che si alza turbato e scappa via. L’uomo osserva dall’oscurità. Ora il buio è totale. Il ragazzo corre in tondo e l’uomo lo insegue. I due cadono insieme e rotolano emettendo gemiti e sospiri. L’uomo grida je t’aime in francese, poi parte l’audio registrato di una coppia ansimante che raggiunge l’orgasmo. Infine il ragazzo esce, trascinando i piedi, con il pollo fra le braccia. Una fievole luce illumina la scena mentre inizia un jazz malinconico alla fisarmonica di Shūgo Yasuda. Poco più di cinque minuti in tutto, che lasciano il pubblico attonito e senza parole. Quanto al suo autore, viene sbattuto fuori dall’associazione».
Hijikata irrompe come un ciclone sulla scena culturale contemporanea, presentando il suo progetto attraverso un gesto criminale (l’assassinio di un pollo) infrazione di un tabù (l’omosessualità) e usando come esca la risonanza mediatica della scandalosa reputazione di un giovane scrittore (Yukio Mishima): «Crimine, perversione e scandalo, la trinità di valori a cui si affida».
Il critico Nario Gōda, che fa parte della giuria, parla di un’assoluta novità compositiva: uno spettacolo fatto al buio per uno spettatore costretto a mettere da parte il cervello e sentire con tutto il corpo ciò che accade, a comprendere senza veder nulla e a costruire lo spettacolo stesso con le proprie emozioni. Una provocazione e un invito a non accontentarsi del ruolo di consumatori passivi, a teatro come nella vita.
Il Butō nasce da queste ceneri e Kinjiki ne è il manifesto. Per Hijikata, «il Butō è il cadavere che si alza in piedi con un disperato desiderio di vita», e il suo Butō è eresia di un corpo totale. La sua danza è un divenire permanente senza differenza fra interno ed esterno, forma e difformità. «È un corpo nudo consapevole d’essere dannato, che riscrive l’anatomia per ribellarsi alla storia».