O che il ritorno è impossibile e se è possibile non è desiderabile
Come l’ingenua fantastica sevizie, nella mia cameretta di figlio di genitori sposati che in vita sua ha preso due sberle, io divoravo libri d’avventura. È quindi con trepidazione che a ventotto anni, ormai in odore di mutui e domeniche all’Ikea, ho aperto uno dei più spericolati capostipiti del genere, Il Conte di Montecristo.
Inizio Ottocento, Marsiglia. Il diciannovenne Edmond Dantès è orfano di madre, ha un padre onesto e povero, fa il secondo su una nave commerciale, è di tendenze rivoluzionarie. Quando il suo vascello attracca all’Elba, l’esule Napoleone gli dà una busta chiusa da consegnare a un suo luogotenente a Parigi. Non sapendo che la lettera contiene l’annuncio del colpo di stato “dei cento giorni”, lui esegue e si rovina la vita.
In questa scena, che fonda e regge la struttura simbolica del romanzo, si racchiude la tragedia della responsabilità individuale. Che cos’ha fatto Edmond? Nulla di male, verrebbe da dire. Eppure ha infranto le leggi, ha trasportato una missiva del nemico fino a Parigi, nel cuore del mondo di cui fa parte. Con la sua ingenuità ha creato potenziali disastri, forse indirettamente ucciso migliaia di persone. Avrebbe dovuto rifiutare? Ha fatto bene? Qual è la vera legge?
E il messaggio sigillato del re morente non allude al rapporto tra le generazioni? La trasmissione di un’eredità non è forse il passaggio di qualcosa di salvifico per il mittente ma spesso dannoso per il destinatario, un dono che le nostre madri e i nostri padri, in buonafede, pongono sulle nostre spalle e noi sentiamo trasformarsi in malattia, ma solo dopo averne marchiato i nostri figli?
Geloso di Edmond che sta per essere promosso a capitano, in combutta con un soldato invaghito della catalana che Dantès ha chiesto in sposa, il tesoriere della nave lo denuncia alle autorità regie come bonapartista. Una sfilza di coincidenze tra il soapoperesco e lo spionistico fa sì che il nostro eroe si ritrovi prigioniero per vent’anni nel carcere dell’isola di If, un’Alcatraz marsigliese. Ormai uomo, evade grazie all’aiuto di un vecchio prete italiano, che oltre a insegnargli buona parte dello scibile gli rivela l’ubicazione dell’antico tesoro dei Borgia, sull’isoletta di Montecristo, a pochi chilometri dall’Elba.
Duelli, colpi di scena, situazioni senza sbocco dalle quali in qualche modo si esce sempre, travestimenti, botole, tuffi nell’Atlantico, bastardi redivivi, finti fantasmi, finti aborti, vedove nere, sequestri con riscatto e senza, vecchi girondini allettati ma tutti d’un pezzo, fanciulle anemiche in pericolo, giovani canaglie, giovani valorosi, cambi di ambientazione alla James Bond per allungare il brodo e incastonare saggi antropologici e geografici (memorabile la descrizione del carnevale romano e della banda di banditi ciociari). Nella sua assurdità la trama procede con tale verve caleidoscopica da mettere quasi in sordina l’inverosimiglianza. L’iperbole diventa la norma, ma continua a stupire. A tratti ci si emoziona, perché i personaggi, seppure tipizzati, hanno una loro umanità.
Nelle più di milleduecento pagine dell’edizione italiana gli unici momenti di noia sono gli intermezzi dialogati su vari argomenti di cui Dumas si serve a mo’ di riempitivo. Chincaglieria Secondo Impero, per noi che con un clic siamo onniscienti. E allora venti pagine di disquisizioni ornitologiche tra gentiluomini in salotto ci parranno un po’ come le esecuzioni di piazza che ossessionano Dantès, il cerimoniale di un’epoca perduta.
Ma un romanzo è anche un’enciclopedia tribale, un fossile in cui cogliere lo stadio di sviluppo di una civiltà. E a riguardo non è detto che la qualità artistica sia il criterio chiave. Forse è in libri come questo che una società si consegna con tutto il suo kitsch, le sue chiacchiere, il suo sfarzo e la sua pochezza, come in una sindone.
Dissotterrati i forzieri dei Borgia e autoproclamatosi Conte di Montecristo, Edmond diventa una via di mezzo tra un Dan Bilzerian dell’evo decimonono (rogita a raffica, veste da sultano, mangia confetti all’hashish, offre banchetti a cui manca solo il verbo sciabolare, per guardia del corpo ha uno zingaro che ha sconfitto a duello, gira l’Europa in yacht con un’odalisca che poi si rivela una principessa greca in disgrazia…) e un vendicatore di torti. D’ora in poi, infatti, impiegherà tutte le proprie energie nello spettacolare annientamento dei fautori della sua incarcerazione. Nel frattempo i nemici hanno fatto strada. Il tesoriere della nave è diventato un banchiere fraudolento, il militare al quale la bella catalana preferiva Dantès non solo è riuscito a impalmarla ma, a suon di inciuci, si è pure fatto nominare pari di Francia.
Ovviamente Edmond è avatar di un altro megalomane insignitosi dei titoli di una classe che odiava e alla quale avrebbe voluto appartenere, detentore del record di arrampicata sociale senza corde. Nato nel 1802, Alexandre Dumas non poteva che guardare con nostalgia all’epoca imperiale appena intravista, quando la Francia era l’avanguardia della Storia e il sangue scorreva come nei backstage delle tragedie antiche. Nel conte imprigionato dalle trame degli amici opportunisti, proprio come Napoleone sarebbe stato tradito dalla borghesia europea alla cui ascesa aveva sgombrato la strada, si nasconde l’imperatore stesso, o meglio la sua effigie insanguinata di giustiziere da fumetto pronto a resuscitare dalle tenebre per consegnare al fuoco eterno gli ipocriti nipoti ingrassati dal compromesso.
La vendetta si compie: cattivi alla berlina, buoni ricompensati o, se morti, celebrati nel ricordo. Quando alla fine la catalana (invecchiata dalle amarezze ma ancora guizzante e volitiva, un bel personaggio) lascia il parvenu pari di Francia e si getta tra le sue braccia, Edmond comprende lezioni antiche. Che vendicarsi è sbagliato perché il male corrompe anche chi vuole piegarlo ai fini della giustizia. E che hai voglia a ricomprarti la casa in cui tuo padre è morto in miseria, o a ritrovare ormai nonno il tuo primo amore su Facebook, tanto ogni ritorno è solo un inganno. È fallito anche il mio tentativo di sprofondare nelle vicende narrate con la cecità goduriosa dei tempi in cui la mia droga era il Nesquik. Non che nel complesso mi sia stufato, ogni tanto però scoccavano dubbi alla “Sì ma mille pagine per cosa?” oppure “Eh ma Tolstoj e Dostoevskij mica hanno bisogno di ‘sto bazar, Stendhal nemmeno, neanche quel secchione di Flaubert…”. E se nessun viaggiatore ritorna mai, meglio tenersi un bel ricordo e non scoprire con Google Earth che Itaca è uno scoglio di capre poco più grande di Montecristo.
È sempre così che va la storia, no? Tizio ritorna, sbudella nemici, ritrova l’amata. Solo che dopo un viaggio di mezza vita, vent’anni in una segreta o dieci ammanettato nel bungalow di Calipso, non si è più gli stessi di quando si è partiti. La patria ci starà stretta, la ragazzina per cui digrignavamo insonni sui pagliericci fradici dell’esilio ci parrà smunta rispetto alla dea in cui a forza di non vederla l’abbiamo trasformata, e appena arrivati scalpiteremo per una nuova partenza, un’altra rottura della normalità conquistata a così caro prezzo. Povero Ulisse, dei remi ti toccherà fare ali al folle volo… Il ritorno nel nulla, almeno, è garantito. O così pare…