Come decifrare la rete di interessi che gli Stati hanno sottoterra?
Ore 8:46 dell’11 settembre 2001: il primo di due aerei si abbatte contro il World Trade Center a New York. Il 20 settembre George W. Bush dichiara la “war on terror”. «La nostra guerra contro il terrore – afferma – inizia con Al Qaeda, ma non finirà lì. Terminerà solo quando ogni gruppo terroristico in grado di colpire su scala mondiale non sarà individuato, fermato e debellato […]. Ogni nazione, in ogni regione, ha ora una decisione da prendere. O siete con noi o siete con i terroristi. […] Si tratta di una guerra di civiltà»[1]: era l’inizio della guerra globale.
Per la prima volta dall’inizio dell’era moderna, la guerra perdeva le caratteristiche che l’avevano contraddistinta: alla strategia mirata e chiara, alla previsione dei tempi bellici veniva sostituito lo sforzo continuato e senza limiti, cronologici, geografici, economici…
Gli accenti si facevano allora millenaristici («l’asse del Male» da sconfiggere), tornavano in auge termini che sembravano dimenticati («crociata», «guerra santa»[2]), si riesumavano concezioni del mondo passate (lo scontro di civiltà) per metterle al servizio degli interessi del presente.
Il resto è noto. Gli Stati Uniti che il 7 ottobre 2001 invadono l’Afghanistan; Colin Powell che meno di due anni dopo inventa prove per giustificare l’invasione dell’Iraq; cosa che effettivamente avviene il 20 marzo del 2003: la guerra durerà formalmente 8 anni, 7 mesi e 28 giorni. Di fatto, non è mai finita.
Gli interessi del presente. Già, ma quali? Fin dai primi momenti in cui si levarono i venti di guerra, oceaniche manifestazioni denunciarono il carattere “grettamente materiale” dell’aggressione. Il petrolio, venne detto – e a ragione –, era il motivo fondante della guerra. Ma come sempre, per comprendere una questione è necessario andare fino in fondo.
Facciamo un passo indietro. Nel 1842 un ventiquattrenne Karl Marx si scagliava dalle colonne della Reinische Zeitung contro la legge che puniva la raccolta di legna sui terreni di proprietà privata. La questione oggi può sembrare banale o persino scontata. L’abitudine all’esistenza di un diritto di proprietà che de-finisce, de-limita l’utilizzo individuale degli oggetti (escludendone così l’uso da parte degli altri individui[3]), ci sembra tanto inveterata da essere nata con la nascita dell’uomo. Non è così.
La legge contro i furti di legna segnava per la Renania un passo verso la completa edificazione di una moderna società borghese. Il diritto consuetudinario di stampo feudale veniva man mano smantellato in favore di una legislazione che, sul generale modello del Code Napoléon, si fondava su tre assunti: il diritto alla vita, alla libertà e alla proprietà. Come rilevava già Hegel nei Lineamenti di filosofia del diritto, questi sono in realtà tre aspetti, tre momenti, di un unico diritto, che riposa sulla «volontà individuale».
§40. Il diritto è in primo luogo l’esserci immediato, che la libertà si dà in modo immediato, a) possesso, che è proprietà; – la libertà qui è quella della volontà astratta in genere, o appunto perciò di una singola persona, che si rapporta soltanto a sé[4].
L’affermazione hegeliana riassume in termini filosofici un lungo processo storico, che affonda le proprie radici non in Germania, né in Francia, bensì nell’Inghilterra del XV-XVI secolo. Il fenomeno delle enclosures[5] – ossia la sistematica recinzione, per uso privatistico, dei terreni comuni, sui quali la collettività esercitava un possesso comune – fondò non soltanto il diritto moderno, ma la stessa società moderna.
Strappati ai tradizionali mezzi di sostentamento e di produzione, i lavoratori agricoli indipendenti vennero trasformati in proletari o in vagabondi. La violenza del processo di accumulazione originaria del capitale, che ben si espresse nelle leggi promulgate[6] per costringerli alla «disciplina che era necessaria al sistema del lavoro salariato»[7], non faceva altro che riflettere lo status nascendi dei rapporti di forza tra le due classi. Sotto la “variopinta scorza” della legislazione sulla terra e i suoi prodotti si celava la lotta di classe, lo scontro per affermare la propria esistenza in seno alla società.
In questo scontro, i capitalisti, appropriandosi di porzioni del mondo, si appropriavano anche delle capacità di rendere la natura economicamente produttiva, asservivano cioè la forza produttiva umana al processo di valorizzazione del capitale. Insieme con la sussunzione formale della forza-lavoro, il capitale sussumeva la realtà in ogni suo aspetto[8].
Già ai tempi di Marx il processo di sussunzione del mondo non fu soltanto – per così dire – “orizzontale”. La proprietà della terra e dei suoi prodotti era proprietà del sottosuolo e dei suoi prodotti: metalli, pietre, carbone… Tutto ciò che implica del tempo di lavoro per essere accaparrato, conservato, trasportato può essere valorizzato dal capitale.
Le guerre per il petrolio dimostrano questo: che il processo di sussunzione è ben lungi dall’essersi esaurito. Ma come l’essenza delle enclosures va cercata nei rapporti umani (nella lotta di classe più precisamente), così l’essenza delle guerre per il petrolio non va cercata nella mera materialità dell’oro nero, ma nelle relazioni tra gli Stati.
Per il vecchio capitalismo – scriveva Lenin nel 1916 –, sotto il pieno dominio della libera concorrenza, era caratteristica l’esportazione di merci; per il più recente capitalismo, sotto il dominio dei monopoli è diventata caratteristica l’esportazione di capitale[9].
Ciò che nell’epoca dell’imperialismo – specie dell’imperialismo giunto a maturazione – emerge come nodo irrisolto è la contraddizione tra la necessità di mantenere dispositivi egemonici che assicurino i rapporti sociali esistenti (di fare riferimento a uno Stato-nazione specifico, con un suo apparato di direzione e di dominio) e la necessità, parimenti impellente, di trascendere i limiti imposti da questa territorializzazione (e così di divenire movimento di capitale globale).
Si colgono, a partire da un’analisi di quest’impasse, i fenomeni sociali e politici che tengono oggi banco: dal fenomeno migratorio su scala globale, alle guerre per procura che si accendono in continuazione, all’insorgenza di concezioni politiche che sembravano consegnate alla «pattumiera della storia».
Non solo. La stessa “globalizzazione” – baluardo secondo i teorici liberisti di un mondo finalmente pacificato all’insegna del libero mercato – altro non si dimostra che una configurazione particolare di questa contraddizione: «l’estensione spaziale del capitale a livello di un mercato mondiale “senza frontiere” da una parte, e l’organizzazione territoriale e statale dello sviluppo diseguale dall’altra»[10].
Il doppio movimento che così si produce impone necessariamente un ripensamento del concetto stesso di spazio e di territorio (nonché di tempo). Se ancora Carl Schmitt poteva fondare il diritto alla sovranità di uno Stato sull’«occupazione di terra», oggi diviene necessario ripensare l’egemonia territoriale come egemonia di un capitale (nella forma di Stato, cioè di capitale territorializzato) nel processo di valorizzazione mondiale.
Sotto l’apparenza di una lotta culturale o astrattamente politica, le relazioni tra gli Stati si mostrano quindi come relazioni tra capitali in lotta per accaparrarsi una fetta più o meno ampia del profitto globale.
La guerra, cioè lo strumento principe per il perseguimento e il mantenimento dell’egemonia, assume toto coelo la funzione di «continua[re la] politica con altri mezzi»[11]. Sottratta ai limiti che le erano propri, diviene guerra illimitata e globale.
L’11 settembre 2001 le Torri Gemelle vengono abbattute. Nel giro di due anni il mondo entra in una fase nuova della sua storia, la fase della guerra in permanenza. Il cerchio si chiude, per comprendere cosa si celava in fondo al pozzo siamo dovuti risalire in superficie: l’unico punto di vista da cui penetrare l’«arcano laboratorio del modo di produzione capitalistico».
Note
[1] G. W. Bush, discorso del 20 settembre 2001, Le Monde, 30 settembre 2001, in D. Bensaïd, Elogio della politica profana, trad. di A. Ciappa, Alegre, Roma 2013, p. 114, cors. nostri.
[2] «Questa crociata, questa guerra al terrorismo durerà molto» dichiarò Bush in un’intervista nel 2001. Come nota Bensaïd «la retorica della guerra giusta non è tuttavia mai davvero scomparsa. Già al tempo del coinvolgimento degli Stati Uniti nella prima guerra mondiale, il presidente Wilson non esitò a parlare di “crociata” e di “guerra santa”. (D. Bensaïd, op. cit., p. 115).
[3] Il fondamento della proprietà privata di un singolo è la non-proprietà di tutti gli altri.
[4] G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, trad. di G. Marini, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 49.
[5] In realtà il fenomeno delle enclosures in Inghilterra si protrasse ben oltre il Cinquecento, fino almeno al XVIII secolo.
[6] Essendo la manifattura dell’epoca incapace di assorbire l’enorme domanda di lavoro creata con l’espropriazione dei terreni, un’ampia massa di uomini fu costretta al vagabondaggio o al brigantaggio. Si sviluppò allora una legislazione – per usare le parole di Marx – «sanguinaria contro il vagabondaggio». Edoardo VI, per limitarci a un solo esempio, ordinò nel 1547 che «se qualcuno rifiuta di lavorare deve essere aggiudicato come uno schiavo alla persona che l’ha denunciato come fannullone. Il proprietario […] ha il diritto di costringerlo a qualunque lavoro, anche al più ripugnante con la frusta e con la catena. Se lo schiavo si allontana per più di 15 giorni, viene condannato alla schiavitù a vita e deve essere bollato a fuoco sulla fronte o sulla guancia con la lettera S; se fugge per la terza volta, deve essere giustiziato come traditore dello Stato. […] Tutte le persone hanno il diritto di togliere ai vagabondi i loro figlioli e di tenerli come apprendisti […]. Se scappano, dovranno essere schiavi» (K. Marx, Il capitale, trad. di D. Cantimori, R. Fineschi, G. Sgrò, Edizioni La Città del Sole», Napoli 2004, p. 804). Questo genere di legislazione, per altro inasprita nel corso del tempo, durò ancora fino al Settecento e non fu un caso soltanto inglese.
[7] Ivi, p. 811.
[8] Vale la pena notare che, proprio per questa ragione, quando si parla di “capitale” non si intende una “cosa”, o un insieme di “cose” (denaro, strumenti di produzione, forza-lavoro…) ma una specifica forma di relazione sociale e di produzione della ricchezza. Questa forma di relazione, com’è noto, è fondata su un rapporto diseguale tra capitale e forza-lavoro: tra chi, avendone la proprietà, anticipa i mezzi della produzione e chi, non avendo altra proprietà se non la propria capacità lavorativa, si vende al miglior offerente.
[9] V. I. Lenin, L’imperialismo fase suprema del capitalismo, trad. di F. Platone, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 98. Poiché, come già ricordato, il capitale è innanzitutto una relazione sociale, dire che l’imperialismo è caratterizzato dall’esportazione di capitale equivale a dire che viene esportata una forza produttiva già caratterizzata da determinate forme di subordinazione sociale.
[10] D. Bensaïd, op. cit., p. 275.
[11] K. von Klausewitz, Della guerra, trad. di A. Bollati ed E. Canevari, Mondadori, Milano 1988, p. 38.