Di pozzo in figlio: il pozzo nella Bibbia

Che storie racconta la Bibbia in cui ricompare il simbolo del pozzo?

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ntra in scena scavato dai servi di Abramo, il pozzo nella Bibbia. Siamo nel libro della Genesi, capitolo 21: Abramo ha scavato dei pozzi; i servi di Avimelech, re di Gerar, li hanno usati, coperti o prosciugati, non è chiaro, fatto sta che il patriarca si lamenta con il re, il quale – come un politico di oggi – per prima cosa risponde di non saperne nulla e che anche Abramo non gliene ha parlato fino a quel momento. A quel punto il vecchio capostipite, che quando c’è da pagare lo capisce al volo e preferisce non dover nulla a nessuno, “regala” al re sette agnelli come simbolo della sua proprietà: il luogo si chiamerà Beer Sheva, ossia pozzo dei sette, e si chiamerà così a lungo, infatti ancora oggi, per esempio, ci vive mia zia Miriam. A proposito di Miriam, ecco un personaggio biblico legato al pozzo… Si racconta nei Pirkei Avot, Capitoli dei Padri, uno dei trattati della Mishnà (anno 0-200 d.C.) che la profetessa Miriam, sorella di Mosè e di Aronne, avesse un suo pozzo personale che miracolosamente la seguiva “camminando” nel deserto con lei per 40 anni di peregrinazioni dall’uscita d’Egitto fino alla sua morte, lungo la strada per la Terra promessa. Apparterrebbe, questo pozzo ambulante, a una delle 14 straordinarie creazioni divine che l’Onnipotente fabbrica proprio all’ultimo minuto, subito prima di “chiudere bottega” e lasciare spazio allo Shabbat, il non-creare. Quando Miriam muore nel deserto – nel capitolo 20 del libro dei Numeri – l’intero popolo di Israele rimane senza più acqua e Dio interviene direttamente perché non muoia di sete.

Il canto di Miriam, illustrazione di John Edward Poynter dal ciclo La Bibbia e le sue storie, 1910

Ma torniamo ai patriarchi: siamo arrivati al secondo, Isacco; quando è il momento di trovargli moglie (siamo al capitolo 24 della Genesi) Abramo spedisce il suo servo più fidato alla terra dei suoi parenti, Paddan Aram, perché torni indietro con una sposa. Il giuramento cui Abramo sottopone il servo è quello di prendere una ragazza della famiglia, ci manca solo che gli porti in casa una “pagana”. Che cosa fa il servo di Abramo, per scegliere la più degna? Un gioco, con sé stesso e con la sorte: la prima ragazza che, arrivando al pozzo, si offrirà di attingere acqua non solo per lo straniero, ma addirittura anche per i suoi animali, sarà la moglie di Isacco. Ed ecco arrivare Rebecca, appena ragazza, ma già attenta e generosa, che attinge acqua per il servo di Abramo e per i suoi cammelli. Il gioco è fatto: il servo le regala monili, orecchini e bracciali e soprattutto un invito a nozze: le sue con Isacco, il figlio del padrone. Non male per qualche secchio d’acqua… Così ci si conosceva a distanza, prima di Tinder.

E poi c’è Giacobbe, il terzo patriarca: anch’egli si trova a un pozzo, in fuga dal fratello Esaù, che ha ingannato, passandosi pelosamente per lui per ricevere la benedizione del primogenito. Arriva al pozzo della “terra degli orientali” (capitolo 29 della Genesi), dove tutti i pastori si danno convegno nel primo pomeriggio perché la pietra che tappa la bocca è tanto grossa e pesante che l’unico modo per spostarla è farlo tutti assieme. Quando Giacobbe arriva e vede Rachele, bellissima pastora e sua lontana (neanche tanto) parente, diventa l’incredibile Hulk e sposta da solo la pietra, a beneficio delle pecore, delle capre, dei pastori con l’ernia, ma soprattutto di se stesso, che ovviamente conquista – è il caso di dirlo – con una sola mossa la bionda pastora. Sappiamo d’altronde che “non c’è cosa più divina che… sposarsi (?) la cugina”. E fin qui, tutti felici, accasati e dissetati. Passiamo però ora a un pozzo secco, se no non ne usciamo più, appunto: dopo Abramo, Isacco e Giacobbe tocca a Giuseppe, il figlio prediletto di Giacobbe, figlio cioè dell’amata Rachele. I fratelli detestano Giuseppe perché è sbruffone, sta ore in bagno come un vero adolescente, fa la spia e lavora poco. Sogna anche di essere più importante di tutti loro. Insomma: motivi ce n’è. Un giorno (siamo sempre nel libro della Genesi, capitolo 37) sono tutti a pascolare, tranne Giuseppe, imboscato e cocco di papà. Papà che lo spedisce a controllare come stanno i fratelli, i quali ne approfittano per liberarsene, una volta per tutte. C’è chi lo vuole uccidere e chi (Reuven) propone invece di gettarlo in fondo a un pozzo, una cisterna, pur di salvargli la vita. La Torah ci dice che quel pozzo «era vuoto, non vi era in esso acqua»: che cosa significa questa apparente ridondanza? Che non solo non c’è acqua, ma l’elemento vitale ha lasciato spazio, ritirandosi, alle peggior creature: serpenti e scorpioni. Il pozzo vuoto di “bene” è dunque pieno di male; il commento rabbinico trae da questa immagine un insegnamento rigoroso: raramente esiste il “neutro”, il medio, il vuoto, il grado zero. Spesso quando non c’è il bene e si crea il vuoto, arriva qualche cosa di velenoso a riempire quello spazio. I fratelli decidono infine di non uccidere Giuseppe, bensì di venderlo a una carovana di mercanti midianiti diretti in Egitto, dove infatti egli sarà venduto schiavo a Potifar, primo ministro egiziano. La poetessa ebrea tedesca Else Lasker-Schüler (Elberfeld, 1869 – Gerusalemme, 1945) ha dedicato all’immagine di Giuseppe “gettato nella cisterna” parole e versi meravigliosi: Sempre egli vestiva la tunica sanguinante d’agnello

La parola ebraica per “pozzo”, “cisterna”, ciè bor, è la stessa di “prigione”, quella in cui Giuseppe viene gettato da Potifar, primo ministro di Faraone, accusato dalla di lui moglie di aver tentato di sedurla.

Giuseppe è detenuto, non c’è nulla che possa provare la sua innocenza: rimane nel bor, nel buco per svariati anni. L’unico modo per uscirne è la psicoanalisi (come quasi sempre): Giuseppe interpreta i sogni dei suoi due compagni di cella, il capo coppiere (il sommelier) e il capo panettiere. Il secondo viene impiccato – come Giuseppe aveva predetto – e quindi può fare poco per lui, mentre il sommelier, liberato e restaurato nella sua posizione, si ricorda di lui – ancorché con molti anni di ritardo – il giorno in cui il Faraone ha bisogno di un interprete per i suoi sogni premonitori. Da qui in avanti di acqua ne scorre, fino all’apertura del Mar Rosso, ma quelle sono altre acque e assai più impetuose.

Come sempre, l’unico modo per uscire dalla cisterna del proprio (e altrui) inconscio è raccontare una storia: propria o altrui, poco conta, purché si racconti.

di Miriam Camerini

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