Si può davvero cadere in un’opera d’arte?
pesso le immagini sono pericolose. Ce lo hanno ripetuto Platone, i vescovi del secondo concilio di Nicea, Maometto, mettendoci in guardia dalle loro insidie. Le immagini ci fanno dimenticare il confine tra il nostro mondo, in cui dobbiamo rimanere per conoscere le cose che sono vere, e il mondo raffigurato, in cui non ci dobbiamo perdere per inseguire cose che sono finte. Il rischio, altrimenti, è di finire come Narciso: sedotti e affogati.
Ma gli uomini, dacché hanno cominciato ad abitare le caverne, hanno avvertito un bisogno di creare e contemplare immagini insopprimibile, di fronte al quale col tempo hanno imparato a prendere almeno una precauzione: mettere la cornice. Una linea di confine che recinta lo spazio del quadro e ne limita l’esistenza lì, entro i suoi quattro lati.
In tutti questi casi l’immagine ci rivolge un invito al dialogo, ci suggerisce dei percorsi di attraversamento e ci coinvolge in un gioco immaginativo. Un’illusione innocua, tutto sommato. Come potremmo mai cascarci seriamente dentro come Narciso?
Certo, si tratta di una soglia fragile, in cui gli artisti del Rinascimento hanno trovato molti modi di fare breccia: il Cristo della Pietà di Giovanni Bellini sporge una mano verso di noi oltre una balaustra dipinta, un angelo nella Vergine delle rocce di Leonardo da Vinci ci chiama nella scena con lo sguardo, l’Annunciata di Antonello da Messina ci dispone addirittura nella posizione di impersonare la parte di Gabriele annunciante.
A riuscirci è stato un paio di anni fa un turista italiano in visita al Museo Serralves di Porto, salito ai disonori della cronaca per essere caduto in un’opera di Anish Kapoor. Convinto che fosse un’illusione ottica, l’uomo si è sporto un po’ troppo sulla Discesa nel limbo, un buco di due metri e mezzo nel pavimento.
Ispirato al dipinto omonimo di Andrea Mantegna, fa riferimento a un episodio tratto dai Vangeli Apocrifi, secondo cui Gesù, prima della resurrezione, sia disceso negli Inferi (o nel limbo) per liberare i giusti morti prima di lui, come Mosè, Davide, Giovanni Battista.
L’artista contemporaneo anglo-indiano Anish Kapoor volge il mistero teologico che dominava il quadro di Mantegna in una riflessione su un mistero della realtà fisica, ovvero la presenza nel cosmo di entità inaccessibili all’uomo come i buchi neri. La sua installazione, infatti, gioca con i nostri sensi a suggerirci l’impressione di trovarci sul limitare di un vero e proprio buco nero, per realizzare il quale ha utilizzato il nero più nero che esista sulla terra: il Vantablack. Capace di assorbire il 99,965% della luce che lo colpisce (anche il laser), è così scuro che l’occhio umano è incapace di discernerne la forma. In pratica se qualcuno si vestisse tutto di Vantablack, il suo corpo apparirebbe bidimensionale, senza rotondità e contorni. Possiamo capire dunque perché lo sfortunato turista sia rimasto ingannato e non si sia reso conto della profondità del buco. Il Vantablack è un materiale costituito da nanotubi di carbonio dello spessore di un atomo, realizzato dalla società britannica Surrey NanoSystem allo scopo di eliminare la luce diffusa nei satelliti e telescopi. Al confronto l’Ultra-Black della NASA sembra blu.
Sin dagli inizi della sua carriera artistica negli anni Ottanta, Kapoor ha indagato e messo in discussione la proprietà del volume degli oggetti nello spazio. Dopo un viaggio in India in cui si ricongiunge alle proprie origini, inizia a realizzare sculture interamente ricoperte di polvere colorata, una reminiscenza dei rituali della festa di Holi. Così alla presenza fisica dell’oggetto Kapoor oppone un velo che evoca un senso di assenza, di smaterializzazione. Prima di scoprire il Vantablack – e dal 2014 acquistarne i diritti a uso esclusivo in campo artistico – il colore prediletto da Kapoor era il blu, un colore profondamente spirituale, che già Yves Klein aveva consacrato a portale d’accesso verso l’assoluto. Un blu dalla valenza affine ai tagli di Lucio Fontana, che negli stessi anni ci rivolgevano l’invito ad attraversare l’opera per raggiungere un altrove.
Sia Klein e Fontana sia Kapoor in fondo si sono riallacciati con i mezzi dell’arte contemporanea a quella lunga tradizione dell’immersività che risale almeno al Rinascimento e al Barocco, fatta di ammiccamenti e protensioni che assottigliano la soglia fra il nostro mondo e il mondo raffigurato per includerci immaginativamente nella scena.
Pensiamo alla Deposizione di Pontormo. Il gruppo che trasporta al sepolcro il corpo di Cristo appena deposto dalla croce è colto in un movimento ideale che si lascia alle spalle Maria e procede verso avanti: verso di noi. L’asse della scena è proiettato verso un punto che si trova nel nostro spazio, nella Cappella Capponi di Santa Felicita a Firenze. Così ci ritroviamo investiti nel campo dell’azione, con l’invito a proseguire lo sviluppo narrativo del momento rappresentato. Pontormo ci chiama a farci carico anche noi del corpo di Cristo al posto di Giuseppe d’Arimatea per deporlo nella tomba, un percorso immaginativo favorito dal fatto che la Cappella Capponi è una vera camera sepolcrale.
Kapoor ci propone un viaggio in discesa simile (col rischio che si trasformi in una caduta rovinosamente reale).
Proseguimento formale della Discesa nel limbo, esposta per la prima volta in occasione di Documenta IX a Kassel nel 1992, è l’opera Descension, presentata nel 2015 alla Biennale d’arte contemporanea indiana Kochi-Muziris e poi riallestita anche a Versailles, San Gimignano e, in versione più grande che mai, nel cuore di Brooklyn. Lì si è aperto nel terreno un pozzo di quasi nove metri pieno di acque in continuo movimento spiralico, un piccolo Gange vorticante la cui energia vorrebbe risucchiarci nell’oscurità dell’ignoto. Un luogo che trascende la materia, vuoto ma al tempo stesso pieno: di paura, di tensione, di energia, di possibilità, di mistero. Una poetica che altre volte l’artista ha tradotto con un altro materiale centrale nel suo lavoro, lo specchio, perché alla fine la discesa nelle profondità dell’universo non è che l’altro volto di una discesa nelle profondità di noi stessi.
C’è però una via d’uscita. Già Mantegna aveva dipinto una parte superiore alla Discesa al limbo in cui si vedeva Gesù innalzarsi verso il cielo. Conosciuta come la Resurrezione di Cristo e conservata all’Accademia Carrara di Bergamo, era ritenuta un dipinto di bottega o una copia di modesto valore. Solo in occasione di un recente studio, nel 2018 si è individuata una piccola croce a metà, che trovava la sua precisa continuazione nella Discesa al limbo e che ha permesso di capire che i due erano un unico quadro tagliato in due in tempi antichi. Dal fondo del pozzo anche Kapoor ci indica anche una via di riemersione per riconquistare la luce.
Con Sky Mirror, un enorme disco in acciaio INOX concavo e lucidissimo posto in piedi, leggermente reclinato, ancora una volta persegue l’intento di distorcere la percezione dei confini di una forma solida e di generare un “buco” nello spazio fisico che abitiamo, ribaltandolo al contrario nello specchio. Così i passanti di Londra, New York, San Pietroburgo (tutti luoghi in cui dal 2007 Sky Mirror è stato installato) si riflettono venendo proiettati verso il cielo. Non è esattamente un’uscita dalla caverna platonica per contemplare il mondo eidetico: lo specchio di Kapoor riflette un paesaggio e un cielo in costante mutamento. Per questo ricorda i quadri romantici di John Constable, che credeva che nessun giorno fosse uguale a un altro e ha dedicato il suo lavoro a cogliere le quotidiane piccole variazioni nel paesaggio e nel cielo. Ma Kapoor include anche noi in questo discorso sulla transitorietà: nell’opera d’arte insieme con il mondo ci siamo letteralmente anche noi, con anche la nostra di provvisorietà, le nostre contraddizioni, la nostra precarietà.
Forse è vero che le immagini in potenza sono pericolose, ma in concreto ci hanno insegnato a meditare su noi stessi e sul mondo molto più di quanto non ci abbiano traditi. E forse sarà vero pure che i “pozzi” di Anish Kapoor ci espongono al rischio di finire Narciso, ma noi col tempo abbiamo imparato a fare buon uso degli specchi.
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