Perché gli uomini per rivolgersi al cielo hanno cominciato a scavare nella terra?
n tempo le fonti, i corsi d’acqua e le risorgive erano considerati sacri, portatori di vita, luoghi di divinazione e importanti punti di incontro per viandanti stanchi. Tra le varie strutture di questo tipo sparse per il mondo merita una menzione particolare il pozzo sacro nuragico che, assieme alle tombe dei giganti e ai tempietti a megaron, testimoniano la profonda religiosità della popolazione nuragica, legata in parte alle speculazioni astrologiche, dal momento che questi pozzi venivano utilizzati probabilmente anche per l’antica osservazione astronomica, soprattutto quando la Luna si trova allo zenith rispetto al pozzo o quando il Sole entra in corrispondenza alla sua volta durante i momenti equinoziali e solstiziali.
I templi a pozzo sono costituiti da tre parti principali, ovvero: il vestibolo, una scalinata monumentale verso il basso coperta da una volta architravata e una cupola voltata a tholos per coprire il pozzo sottostante e creare una stanza. Erano importanti punti d’incontro e luoghi di culto sia in tempo di pace che di guerra. Per Giovanni Lilliu, ad esempio, il pozzo di santa Vittoria era una zona franca: «In questi luoghi, la ritrovata unità di lingua e di religione, il sostanziale unitario fondamento etico discendente dalle comuni origini mediterranee, proponevano l’apertura del gruppo tribale ad un certo discorso “federale”, nell’occasione speciale della festa. Curiosa conversione, seppure effimera, per cui, in schemi urbanistici e modi diversi, vediamo realizzarsi nella Sardegna nuragica una sorta di “pansardità” in qualche modo affine a quella riconversione periodica in senso “panellenico” della divisione politica “greca”, constatabile nei grandi e celebri santuari»[1].
In questi luoghi sono stati rinvenuti sale per riunioni, spazi per danze collettive e numerosi ex-voto in bronzo. In una sorta di una continuità di culto con il cristianesimo penetrato e radicatosi in Sardegna in epoca bizantina, i vecchi idoli sono stati sostituiti con i santi e spesso sono state costruite chiese su preesistenti templi della civiltà nuragica.
Tra i più importanti e meglio conservati abbiamo il Santuario nuragico di santa Cristina, situato nel comune di Paulitanino nella provincia di Oristano. Il pozzo sacro è databile attorno all’XI secolo a.C.[2] e comprende un vestibolo per le adunate, la scala di accesso e il pozzo vero e proprio ancora costantemente pieno d’acqua. Queste strutture sono circondate da un recinto a forma di “serratura” che le separa dalla zona profana, dove sono stati trovati una capanna circolare, al cui interno si trova un sedile che corre lungo tutta la parete presumibilmente usato durante i ritrovi della comunità, e un nuraghe, probabilmente anteriore al pozzo sacro e facente parte di un antico villaggio. Dopo la penetrazione cristiana nell’isola nei pressi del pozzo sacro furono costruite una chiesa dedicata a santa Cristina e, a partire dal XVIII secolo, 36 abitazioni dette muristenes che formano un novenario, ovvero il luogo dove i fedeli si riuniscono in preghiera nei nove giorni precedenti alla festa. Interessante notare che la devozione a Santa Cristina è legata al culto delle acque praticato dai popoli nuragici: Cristina infatti venne condannata a morte per annegamento, con una pietra al collo, la gettarono nelle acque del lago di Bolsena; la pietra sorretta dagli angeli, galleggiò e riportò a riva la fanciulla.
A Venezia, oltre ai celeberrimi Piombi, le celle costruite nel sottotetto di Palazzo Ducale, esistono anche i Pozzi, prigioni sotterranee forse ancora più aspre dei Piombi in quanto perennemente umide e buie, areate solo grazie a fori sui muri e formate solo da un letto di legno, una mensola e un pitale per le deiezioni. In una di queste celle, precisamente la numero 10, negli anni Ottanta vennero rinvenuti dei graffiti che formavano un ciclo pittorico comprendente una sacra conversazione con la Vergine, San Rocco, San Benedetto e San Sebastiano e sulla parete opposta un crocefisso e un angelo. Questi graffiti sarebbero opera del pittore di Conegliano Riccardo Perucolo, qui rinchiuso perché accusato dai giudici del Santo Uffizio di seguire Lutero. Il pittore, intimorito dalla tortura e dal terribile stato di carcerazione, confessò, abiurò e come atto di buona fede si dichiarò pronto a realizzare un dipinto a consolazione dei detenuti ammalati, in quanto era a conoscenza che la cella sarebbe stata trasformata in infermeria. Così il Perucolo iniziò il lavoro senza terminarlo perchè venne mmesso in libertà, per vent’anni finse un’apparente devozione alla Chiesa di Roma continuando però ad appoggiare la Chiesa Riformata. All’inizio del 1568 fu bruciato vivo sul rogo in piazza del Mercato a Conegliano[3].
Sulla parete opposta alla Vergine, un Cristo crocefisso e a lato San Rocco, che regge una campanella attorniato da due maialini: il Perucolo si era servito di un chiodo o punzone per incidere le figure su uno strato di calce fresca, per poi ripassare sui segni un pennellino imbevuto di acqua mista a polvere di carbone. ANSA/ANDREA MEROLA
La Vergine con in braccio il Bambinello e a lato San Sebastiano: il Perucolo si era servito di un chiodo o punzone per incidere le figure su uno strato di calce fresca, per poi ripassare sui segni un pennellino imbevuto di acqua mista a polvere di carbone. ANSA/ANDREA MEROLA
Anche la Puglia è una regione ricca di tradizioni e devozione verso le figure di santi, beati e eventi miracolosi; tra le più importanti di questa terra troviamo a Capurso, centro distante circa 6 km da Bari, la devozione verso la Madonna del Pozzo che si festeggia l’ultima domenica di agosto. Il culto verso santa Maria del Pozzo risale al 1705 quando in una notte d’aprile al sacerdote di Capurso Domenico Tanzella (15 maggio 1650 – 5 ottobre 1730) sul letto di morte comparve la Vergine che gli disse di bere l’acqua del pozzo di santa Maria, situato in contrada “Piscino”, per ottenere una pronta guarigione, i parenti si affrettarono a prelevare l’acqua per farla bere al moribondo che, una volta bevuta, miracolosamente guarì. Il 30 agosto del 1705 il prete, ormai ristabilito, decise di andare accompagnato da tre compaesani al pozzo miracoloso, si calò all’interno e, con grande meraviglia, rinvenne sulla parete volta a mezzogiorno del pozzo un’icona della Vergine. Le cronache del tempo raccontano anche che al prete cadde di mano una candela che finì nelle acque del pozzo ma che per miracolo non si spense ma anzi continuò a splendere seppur tutta bagnata; oppure narrano del momento in cui il sacerdote Tanzella decise di staccare l’icona per portarla in paese ed esporla alla venerazione pubblica e questa da sola si staccò dalla parete del pozzo per finire nelle sue braccia. Il resto della vita del sacerdote la passò accanto all’icona, nella cappella dedicata alla stessa che la sua famiglia fece costruire.
Ecco quindi alcuni degli elementi sacrali che, dall’antichità, si sono costruiti attorno all’immagine del pozzo, il cui esempio più celebre – sia per il capolavoro architettonico che per il retroterra tradizionale – è di certo il Pozzo di San Patrizio a Orvieto.
Note
[1] G. Lilliu, “Al tempo dei nuraghi”, in AA.VV., La civiltà in Sardegna nei secoli, ERI, Torino 1967, p. 23.
[2] G. Lilliu, La civiltà dei Sardi dal Paleolitico all’età dei nuraghi, Il Maestrale, Nuoro 2004.
[3] Per maggiori informazioni sono consigliati due libri: L. Puppi, Un trono di fuoco. Arte e martirio di un pittore eretico del Cinquecento,1995 e G. Romanelli, Il pittore prigioniero, 2014
di Marco Saporiti
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