Al corso di nuoto che ho frequentato per un anno c’è una ragazza cingalese. Non faccio il suo nome per ovvie questioni di privacy. Parlando dopo una delle tante vasche in cui ci si tastava il torace per verificare se i polmoni fossero collassati o meno, è emerso che questa ragazza di 16 anni è nata in Italia, frequenta un prestigioso liceo scientifico milanese con un rendimento invidiabile, parla ovviamente un italiano impeccabile, perfetto. Nonostante tutto ciò non ha la cittadinanza. I suoi genitori l’hanno richiesta quando aveva 12 anni, invano. Per lo Stato Italiano lei, in quanto figlia di stranieri, in quanto diversa, non ha diritto di avere la cittadinanza italiana. Questa ragazza ha nel portafoglio un permesso di soggiorno.
Trovo davvero indicativo che ci si trovi a cozzare così fortemente con uno Stato che non sa guardare alla realtà. Non l’accetta quasi, o la tratta come una macelleria sociale in cui tutto vale: basta ottenere consenso; anche di fronte a ragazze e ragazzi formalmente stranieri, di fatto integrati nella nostra quotidianità. Ciò equivale a dire passare da stranieri in patria l’età dello sviluppo, della costruzione della persona in quanto tale, un periodo complesso come l’adolescenza: ospiti di un paese in cui sono nati, cresciuti, con un permesso di soggiorno a fare da carta d’identità.
L’aspetto della formazione dell’individuo è qui calpestata da meri interessi di casacca, perché lo straniero deve essere escluso, altrimenti il gioco non funziona. Eppure questi ragazzi vivono in Italia. Studiano in Italia. Sono italiani. Ho pensato che quella ragazza è molto più italiana di me. Che poi, io sono italiano a metà, dato che mia madre è Brasiliana. Ma questa è un’altra storia. So solo che mi sono sentito crescere una rabbia enorme. Perché questa è un’ingiustizia enorme.
Essere spiantati così, ragazzi, è davvero incredibile.