Amleto e il suo doppio

Tra agire e recitare: un’analisi metateatrale dell’opera di Shakespeare

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in commedia: «Si ha metateatro ogni volta che la finzione scenica rimandi direttamente al mondo del teatro, presentando tematiche relative alla vita degli attori, dei drammaturghi, reali o immaginari che siano, affronti questioni relative alla qualità dell’arte drammatica, oppure, più semplicemente, offra l’azione di personaggi consapevoli della finzione che essi stessi stanno agendo e a cui esplicitamente si riferiscono, come frequentemente avviene nella drammaturgia contemporanea»[1]. In tal senso, il metateatro comprende anche la mise en abyme e rappresenta un artificio che può essere riscontrato già in autori come Aristofane e Plauto, passa da Molière, Marivaux e arriva a Pirandello che, soprattutto nella sua trilogia metateatrale (Sei personaggi in cerca di autore, Ciascuno a suo modo e Questa sera si recita a soggetto), ha analizzato approfonditamente la finzione scenica e il rapporto che ha con la vita. Altri esempi, a noi più vicini, si ritrovano in Tom Stoppard (The Real Inspector Hound), in Michael Frayn (Noises Off), John Arden (The Bagman), e Ronald Harwood (The Dresser).

Che cosa è il teatro? Come si pone rispetto alla vita? Che cosa mostra della vita? È legittimo considerarlo come una mise en abyme della vita stessa? Chiunque lavori in questo ambito artistico è arrivato a porsi questi interrogativi. La risposta più immediata a cui viene spontaneo pensare è una citazione di William Shakespeare che, in molte delle sue opere, trova modo di far dire ai suoi personaggi: «tutto il mondo è un palcoscenico».

In Amleto il tema appare particolarmente approfondito. Dopo aver parlato del tema del sogno e della teatralizzazione del pensiero sotto un profilo psicologico, il nostro sguardo viene attratto inevitabilmente dal capolavoro shakespeariano. Qui il protagonista, il principe di Danimarca, afferma che il fine del teatro «dalle origini ad ora, è stato ed è di tenere, per così dire, lo specchio alla natura, di mostrare alla virtù i suoi lineamenti, al vizio la sua immagine, e all’età e al corpo del tempo la loro forma e impronta»[2]. Proprio a partire da questa convinzione, Amleto chiederà ai comici di mettere in scena una pantomima che racconta il dramma di Gonzalo. Lo spettacolo non è altro che un pretesto per accusare Claudio (zio di Amleto) di aver ucciso il re per poi sposare la regina e usurpare il trono di Danimarca. Si tratta di un esempio perfetto di metateatro: il principe ha ricevuto la visita dello spettro del padre che gli ha svelato la colpevolezza di Claudio e trova modo, attraverso la pantomima degli attori, di rendere esplicito, all’interno della finzione drammatica, l’omicidio del re.

Amleto e il fantasma, Frederick James Shields, 1901

Lo spettro stesso, del resto, potrebbe essere considerato a sua volta come il doppelgänger (letteralmente “doppio passante”) di Amleto, sintomo evidente di un io diviso, ma soprattutto, ai fini della mia analisi, ulteriore esempio di mise en abyme. L’espediente del teatro nel teatro «è costruito non solo per catturare la coscienza di Claudio, ma anche quella di Amleto. Per il principe di Danimarca la coscienza è qualcosa di più della colpevolezza o dell’innocenza, significa conoscenza, consapevolezza. La moralità è un dovere della percezione. Amleto non agirà fino a quando i fatti non saranno chiari e incontestabili»[3]. La forza di questa scelta del principe sta nel fatto che non esiste altro modo, se non il teatro, per rappresentare gli orrori reali che rimangono altrimenti inaccettabili. Il testo, inoltre, sottolinea tale forza anche attraverso alcune indicazioni date agli attori da Amleto stesso per la messa in scena (il monologo è molto lungo, qui riporto solo l’inizio): «Pronuncia la battuta, ti prego, come te l’ho pronunciata io, agilmente sulla lingua. Ma se ti metti a vociarla come fanno molti dei nostri attori, preferirei che a recitare i miei versi fosse il banditore cittadino. E non segare troppo l’aria con la mano, così. Ma usa moderazione. Perché nel torrente stesso, nella tempesta e, come posso dire, nel mulinello della tua passione, devi acquistare e produrre una temperanza che possa levigarla. Oh, mi ferisce l’anima sentire un marcantonio imparruccato che fa una passione a pezzi, e la riduce in stracci, per fracassare i timpani degli spettatori dei posti in piedi, che per la maggior parte capiscono solo pantomime incomprensibili e frastuono. Vorrei che un tipo simile fosse frustrato per voler superare Termagante. È più Erode di Erode. Evitalo, ti prego»[4].

L’enorme attenzione alla resa scenica richiesta da Amleto è necessaria per l’efficacia del piano? Io credo di sì. Come influire sulla realtà attraverso la finzione, se non cercando di essere il più veri possibile all’interno della finzione stessa? È questo il messaggio che l’autore, attraverso il suo personaggio, sembra suggerire, in coerenza con la sua personale visione del mondo come palcoscenico. Un altro esempio di metateatro nell’opera è il lungo monologo di Amleto alla fine del secondo atto. In questo caso il principe si limita a parlare in maniera filosofica del teatro, senza chiedere che sia realizzata una vera e propria messa in scena.

Non è mostruoso che quest’attore, in una mera finzione, in un suo sogno di passione, possa tanto forzare la sua anima al concetto che per il suo operare tutto il suo volto è impallidito, lacrime nei suoi occhi, disperazione nel suo aspetto, la voce rotta, e l’intera funzione che s’adattava con le forme alla sua idea? E tutto per niente. Per Ecuba! Cos’è Ecuba per lui o lui per Ecuba, che debba piangere per lei?[5]

Già solo in queste poche righe si evince un senso di fiducia verso l’attore, verso l’arte teatrale. Perché nonostante la grande forza del palcoscenico, la rappresentazione resta comunque inadeguata rispetto alla vita ed è insostenibile che la finzione stessa tenti di sostituirsi alla realtà piuttosto che smascherarla (del resto Pirandello diceva che il mondo è pieno di maschere…). Allo stesso tempo però il principe è cosciente che nella realtà della corte le convenzioni linguistiche e sociali mascherano la realtà e la trasformano in finzione.

C’è un’ulteriore mise en abyme che si incontra nel testo: si tratta in questo caso della corrispondenza tra il linguaggio e l’azione, tra ciò che un personaggio afferma e l’azione svolta da un altro personaggio nel corso dell’intera opera. I due esempi più chiari per quanto riguarda questo ulteriore gioco di specchi sono costituiti dalla battuta finale di Amleto: «Il resto è silenzio»[6], che in poche lettere rimanda alla discesa verso l’abisso della vendetta in cui è caduto il protagonista e allo stato di perdizione in cui si trova la corte di Danimarca. La realtà anche in questo caso è così inaccettabile da lasciare solo una soluzione: il silenzio, l’impossibilità di dire, la negazione del teatro stesso e della realtà cui fa da specchio. Inoltre la battuta sembra rimandare a tutti i silenzi presenti nell’opera: il silenzio di Polonio che spia Amleto e Gertrude; quello di Ofelia nell’acqua; quello dello spettro prima di incontrare Amleto.

Il secondo esempio della mise en abyme tra il testo e l’azione sta nella battuta di uno dei clown/becchini all’inizio del quinto atto. Riporto questa battuta in inglese per analizzarla al meglio:

[…] an act hath three branches – it is to act, to do, and to perform»[7].

Una delle analisi che spesso il personaggio di Amleto mette in luce nei suoi monologhi riguarda l’impossibilità di agire, proprio a causa della continua oscillazione tra realtà e finzione di cui scrivevo prima. Va sottolineata la particolarità linguistica di questa battuta: to act in inglese significa agire, ma anche recitare (è l’etimo della parola actor, cioè chi recita). Analogamente, to perform può essere considerato, in ambito teatrale, un sinonimo quasi perfetto di act. Anche questa battuta, pertanto, rimanda a un livello metateatrale: in una realtà sempre più incerta e confusa, è possibile un’azione reale o si è “costretti” a ricorrere alla finzione teatrale per poter agire realmente?

Insomma… meglio la realtà o la finzione? «Essere o non essere, questa è la domanda»[8]. Persino il monologo più famoso di quest’opera, e forse del teatro in generale, può essere analizzato in termini metateatrali, poiché il teatro è finzione, sogno. E allora, meglio recitare o meglio vivere?

Il metateatro è uno strumento utilizzato non solo nella prosa, ma anche nella lirica. Ad esempio nell’opera Pagliacci di Ruggero Leoncavallo. Anche qui ritroviamo il meccanismo del teatro nel teatro, nella scena centrale in cui il protagonista è costretto a recitare la commedia pur sapendo che la sua amante (sia nella finzione che nella vita) lo tradisce. Per capirne però la differenza fondamentale rispetto all’Amleto, è necessario…

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Note

[1] M. Cambiaghi, Le commedie in commedia, Mondadori, Varese 2009, p. 2.

[2] W. Shakespeare, Amleto, tr. it. di Agostino Lombardo, Feltrinelli, Milano 2013, atto III scena 2, p. 135.

[3] R.J. Nelson, Play within a Play, Capo Press, New York 1971, p. 22.

[4] W. Shakespeare, Amleto, cit., atto III scena 2, p. 133.

[5] Ivi, p. 115.

[6] Ivi, p. 281.

[7] Ivi, p. 235.

[8] Ivi, p. 125.

di Elena D’Agnolo

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