Si può chiudere l’anima in una scatola cinese?
…«che il fermarsi dell’acqua la corrompe: se essa scorre è buona, se non scorre non è buona»[1]. Il Visir è Nur ed-Din. Di lì a non molto morrà e il figlio Hasan, come lui, sarà preda di fate e Jinn (“geni”), verrà messo in un letto e al suo riaversi… solita fregatura: realtà o sogno? Ma, come vedremo fra poco, quell’oppure può essere inteso anche come disgiunzione inclusiva, e dunque: realtà e/o sogno?
Grazie al tema delle Mille e una notte donatoci dalla scorsa rubrica, il fiume carsico della mise en abyme trova estuario in Oriente e lascia sulla rena una copia dell’I Ching aperta al capitolo 29, quello dal titolo: L’abissale.
In questo, il simbolo ripetuto dell’abisso crea il vortice che suggerì alla tradizione confuciana l’immagine dell’acqua in una gola montana, l’atto del precipitare, l’incesto cannibale di un elemento che divora se stesso e che, già pericoloso come tutte le correnti, raddoppia addirittura il rischio, come al mahjong. Eppure, «ripetendosi il pericolo, ci si assuefà», rivela l’I Ching. Il pericolo mostra in più la forza dell’acqua capace di infiltrarsi ovunque, di non arrendersi e gemellarsi allo scopo di ritentare finché «raggiunge la sua meta scorrendo ininterrottamente»[2]. “Riprova!”, si risponde sempre al malcapitato che si illude di aver raggiunto l’ultima scatola, o l’ultima bambola, e che esclama ingenuamente: “Questa è l’ultima!”.
Poco si sa, invero, della nascita delle scatole cinesi. Se ne conoscono alcuni effetti: ispirarono le bambole kokeshi della tradizione giapponese, finché una di queste, raffigurante il nume della fortuna Fukurokuju, costruito in modo da contenere quattro minute copie di se stesso, portò fortuna al mecenate russo Savva Mamontov, animatore del circolo di Ambramcevo, che si lasciò ispirare per creare la prima matrioska della storia. Buffo, la strada a ritroso verso le origini delle scatole cinesi è assai più impervia. Nel gioco da salotto, la sfida è scendere in basso nei livelli d’insieme, scommettendo su quale sia il contenuto (invariante) ultimo. In molte sue metafore, al contrario, il problema è capire se ci si trovi effettivamente nel contenitore più grande. È proprio in Oriente l’espediente letterario più antico della storia, cui André Gide donerà poi locuzione. Si tratta del poema epico del Rāmāyaṇa, in cui i figli del protagonista, l’eroe Rama, finiscono in un bosco dove un saggio sta leggendo un libro. Il libro è proprio il Rāmāyaṇa e il saggio è Vālmīki, l’autore dell’opera. Guarda guarda, indovinate chi ha passato al crivello le proprie fonti per scovare questo bell’esempio di aberrante ricorsività? Proprio lui, o meglio… Luis. Il vecchio Borges infatti, ben prima di noi, guardò alle culture dell’Asia per unire le focali delle Mille e una notte e della letteratura indiana e resuscitare questi spettri da mise en abyme. Sulle sue orme va lo scudiero Odifreddi, il quale propone altri due esempi preclari: l’altro poema epico indiano, il Mahābhārata, in cui l’autore Vyasa è anche uno dei personaggi dell’opera, la quale di racconto in racconto viene dettata a un amico del narratore, poi a un re e perfino al dio Ganesh, riaprendo la diegesi a ogni passaggio; il secondo esempio è il classico cinese Il sogno della camera rossa, in cui la Fata dell’Improvviso Risveglio compare in sogno a Pao-Yü per narrargli la storia che lui stesso sta vivendo, ossia la trama dell’opera.
Ecco che l’esperimento del sogno trova delta in altri luoghi oltre a quello del cogito: per esempio nell’idea che in mancanza di prove sul fatto di trovarci davvero nella “scatola più grande possibile”, tanto vale prenderla come tale in attesa che qualcuno la scoperchi, agendo come se potesse anche non accadere mai. Ecco il senso della ritraduzione: realtà e/o sogno. È acuto Borges, nel breve e a tratti superficiale testo su Cos’è il buddismo, quando ritrova una differenza sostanziale fra tale credo e il culto hindù, dicendo: «Per le Upanishad il processo cosmico è il sogno di un dio; per il buddismo esiste un sogno senza sognatore»[3]. Ecco che finalmente si supera quell’impasse da scatola cinese in cui l’anima, così nella tradizione induista, veniva scomposta in una coppia di uccelli di cui l’uno agisce mangiando il frutto del pippala mentre l’altro resta indietro a guardarlo, il cui rapporto è sì quello di contenitore-contenuto ma appare a tratti inconciliabile. Al contrario, anche se pure nello spiritualismo laico buddista «l’anima è uno spettatore, un testimone, non un attore nei confronti delle cose», tuttavia, come nelle teatralizzazioni del pensiero che da Amleto in poi sono già state menzionate, «chi assiste a una danza o a una rappresentazione teatrale finisce con l’identificarsi coi danzatori o con gli attori»[4].
Ecco trovata così una terza via d’uscita dall’incubo frattale: non cercare di chiudere il cerchio facendo della scatola più grossa contenuto della più piccola, come proposto a destra, o restare acquiescenti nel circolo ermeneutico, come si urla a sinistra, ma ricordare piuttosto che se, appunto, il contenuto può essere a sua volta contenitore, il gioco delle parti si può fare in tutte le direzioni, in alto e in basso: le montagne diventano abissi, e monti le Marianne, rocce somigliano a coralli, spuma si fa neve. «The dewdrop slips into the shining sea»[5], recitava Sir Edwin Arnold in The Light of Asia. Fa eco Pierre Bayle il quale riferiva, nel suo Dizionario, di una setta cinese chiamata Foe Xiao in cui i discepoli seguivano l’idea di Xe Kia, loro maestro, secondo cui l’anima è come l’acqua di una bottiglia che galleggia sul mare: non vi è differenza fra l’acqua dentro e quella fuori, e quando la bottiglia si romperà, il liquido si mescolerà di nuovo nell’oceano fino a sparire.
Come non deprecare, a questo punto, la vita umana? Come conferire dignità a un livello d’esistenza nell’istante in cui lo si inscrive nelle feritoie di una merlatura potenzialmente infinita? Bayle aveva una perplessità diversa, affluente tuttavia dello stesso problema: «La materia di cui son fatte le bottiglie, che vagano nell’oceano, costituisce un involucro che impedisce all’acqua del mare di venire a contatto con l’acqua che le riempie; se però esistesse un’anima del mondo, essa sarebbe diffusa in tutte le parti dell’universo, per cui nulla potrebbe impedire l’unione di ciascuna anima con il suo tutto»[6]. Proprio qui avviene lo scacco del buddismo: se infatti, come nell’induismo, ci si concentra sul contenitore, in questo caso il brāhman, il principio sommo, di cui le anime individue sono solo caduchi succhi prossimi alla digestione del saṃsāra (ciclo di rinascite), l’obiezione di Bayle resta valida. Ma se invece, come fece il Buddha, si afferma che l’importante non è tanto che l’ātman (l’anima individuale) sia il brāhman, ma che il brāhman sia l’ātman! – e cioè, tradotto: non importa che il contenitore è anche il contenuto, ma che il contenuto è anche un contenitore – allora è in noi stessi che dobbiamo ricercare la verità, che dobbiamo davvero partorire il nostro genio, poiché noi siamo anche bottiglia, non soltanto acqua. Gli induisti pensavano che alla morte, le anime colmassero il nucleo della luna, la quale attraversava così le sue fasi finché, ormai ricolma, le rigurgitava a nuova vita. Nel testo buddista del Milindapañha, invece, il monaco Nagasena rivela al re Milinda che «come i fiumi entrano nel mare e questo non s’empie, gli esseri entrano nel Nirvana senza colmarlo mai»[7]. Solo così, permettendo al contenuto di equivalere al contenitore e generando un’insommabilità che funziona come una sorta di olismo al contrario, l’ātman riceve tutta la sua dignità, senza dover rinunciare al sinonimo “tutto = parte”.
Borges, il maestro della mise en abyme, conclude il suo libretto sul buddismo raccontando della parabola del fiume che separa i due regni, i quali entrano in guerra per accaparrarsi l’acqua contro la siccità, finché interviene Gautama dicendo: «Spargete la cosa più preziosa per ottenere ciò che vale molto meno! Se darete inizio alla battaglia, spargerete il sangue dei vostri uomini e non avrete aumentato di una sola goccia la portata del fiume»[8]. Voilà: acqua dentro è meglio di acqua fuori.
Apriamo perciò anche noi il Dizionario semiologico abissale[9] per scoprire che la prima voce enciclopedica, cioè “abissale”, è una voce del verbo “amare” in un tempo verbale che dobbiamo ancora inventare. Fino a quel momento, facciamo come il giovane descritto da Kawabata in compagnia della sua innamorata nel romanzo Il lago, che in giapponese letteralmente è Mizuumi, ossia l’acqua (mizu) dentro il mare (umi):
Camminava contemplando il lago e gli sembrava che le loro immagini riflesse avrebbero continuato a procedere all’infinito, senza separarsi mai[10]…
Note
[1] Le mille e una notte, a cura di F. Gabrieli, Einaudi, Torino 1978, p. 114.
[2] I King. Il libro dei mutamenti, a cura di B Veneziani e A.G. Ferrara, Ubaldini-Astrolabio, Roma 1995, pp. 156-157.
[3] J.L. Borges, Che cos’è il buddismo, a cura di F.T. Montalto, Newton Compton, Roma 2012, p. 62.
[4] Ivi, pp. 36-37.
[5] «La goccia di rugiada si perde nel mare risplendente», ivi, p. 40.
[6] P. Bayle, Dizionario storico-critico, a cura di G. Cantelli, Lampi di Stampa, Milano 1999, p. 370.
[7] J.L. Borges, Che cos’è il buddismo, cit., p. 64.
[8] Ivi, p. 101.
[9] Cfr. L. Bernardi, Medusa, Tunué, Latina 2016.
[10] Y. Kawabata, Il lago, tr. it. Lydia Origlia, Guanda, Milano 2015, p. 32.