Intervista ad Antonio Merola
Antonio Merola, poeta, è già noto ai nostri tipi. Ha esordito con un libro, un saggio, dedicato a Fitzgerald, uno degli scrittori più controversi e amati della letteratura americana. Dopo aver letto il libro ho deciso di intervistare Antonio, cercando di sviscerare ulteriormente un saggio ben scritto, informato e dettagliato, figlio di uno studio attento di un autore che ha rischiato e rischia di essere banalizzato e inflazionato. Grazie a questo scritto si riesce a trovare un nuovo filo che tesse con cura e agilità la storia di un autore con un nuovo punto di vista. Il tutto con un rimando continuo all’attività principe di Antonio, la poesia.
Da poeta quale sei hai scelto come esordio saggistico di parlare di Fitzgerald, un romanziere. Come mai?
Ho sempre avuto una concezione piuttosto puerile della letteratura. Sai una cosa? A me interessano l’uomo o la donna che sono dietro i libri. E a Fitzgerald questo libro glielo dovevo. Allora ho acceso la luce [n.d.r. la raccolta di poesie inedite a cui Merola lavora da anni] non sarebbe mai esistita senza ciò che ho imparato da lui come essere umano e come scrittore. Perché l’esperienza biografica che si cela dietro la raccolta si nutre di momenti in cui l’esperienza di Fitzgerald è stata con me per tutto il tempo. Ogni volta ci provo a spiegare che cosa sia la critica empatica, di cui parlo alla fine del saggio. È più o meno questo: il sussurrare di Fitzgerald dietro le mie orecchie – ciò che tu vivi e che gli scrittori dietro i libri hanno già vissuto come te. Se l’esistenza è universale, la vita non lo è fino in fondo.
La vita, la carriera, il riscontro critico di e su Fitzgerald sono stati discontinui, accidentati e caratterizzati da tante difficoltà. Cosa ci ha fatto cambiare idea su quello che fino a 60 anni fa era considerato uno scrittore minore?
Sicuramente oggi tutti sono tornati a ripubblicare Fitzgerald perché si sono liberati i diritti da poco. Ma in realtà, questo fenomeno va avanti da parecchio tempo – è qualcosa di gigantesco, se pensiamo che persino Alfonso Signorini ha dato alle stampe un saggio narrativo su di lui. C’è qualcosa, cioè, che deve avere attirato il grande pubblico. La critica italiana nel dopoguerra si è trovata a dovere combattere una battaglia senza senso: uscivano allora articoli dal titolo Un giovane americano non inferiore a Hemingway. Perché? Il peso critico dell’antologia Americana di Elio Vittorini era davvero enorme. Ma una battaglia simile può davvero avere qualcosa di critico? Eppure, è stata fatta – e a quanto pare era necessaria. Riassumiamola così, perché ne ho già parlato mille volte: per Vittorini Fitzgerald era uno scrittore minore, mentre Hemingway lo Scrittore Americano. Perciò bisognava, se non capovolgere, quanto meno bilanciare questo assioma. Posso dirti però da dove tutto è iniziato, perché credo che abbia qualcosa di magico: i soldati americani portavano con sé sul fronte delle edizioni tascabili. Tra queste, c’era una edizione cumulativa di Fitzgerald che fu abbandonata sul ciglio della strada, assieme a un mucchio di altri libri – che se ne faceva un soldato delle storie di Fitzgerald, direte voi. E forse avete ragione. Fatto sta che Cesare Pavese e Fernanda Pivano trovarono quel libro tra le macerie di carta. E anche il resto è storia.
In Tenera è la notte il protagonista è uno psichiatra. Secondo la tua interpretazione non è casuale, data la malattia mentale che ha colpito Zelda. Approfondiresti il rapporto che c’è tra Fitzgerald e la psichiatria?
Sebbene abbia imparato moltissimo della scienza psichiatrica, fino a utilizzare con una estrema libertà i termini tecnici sia nei propri romanzi che nelle lettere private che mandava alla figlia Scottie – è straziante, in un certo senso; la luce che ha illuminato davvero Fitzgerald non riguarda la medicina in senso stretto, ma il rapporto privato con una persona affetta da un disturbo psichiatrico. Ciò che mi ha insegnato riguardo le malattie mentali è, in realtà, qualcosa di piuttosto amaro: ognuno di noi può stare vicino soltanto a una persona. Questo significa, per la persona sana, subordinare alla persona malata gran parte della propria vita – talvolta l’intera esistenza. Significa per esempio adagiarsi ai ritmi della malattia, che sono imprevedibili. E credo che sia una forma splendida di sacrificio. C’è una immagine bellissima di Pietro Citati che ho disseminato ovunque. Voglio farlo anche qui: «Nei suoi pensieri, Zelda era sempre avvolta da un’ondata di amore: per averne soltanto l’imitazione o l’eco, Fitzgerald sarebbe stato pronto a tradire la parte migliore di sé. Lei era vicinissima e lontana, perché abitava in luoghi oltre le “frontiere della coscienza”, nel freddo buio dello spirito, dove lui non volle mai avventurarsi. Fitzgerald abitava qui, tra noi, lungo le rive del lago, sebbene guardasse e spiasse cosa accadeva oltre le “frontiere”, nel buio» (La morte della farfalla). Merda, questo è l’amore – se per caso vi trovate fianco a fianco con una persona schizofrenica non smettete mai di affacciarvi da quel maledetto muro.
Zelda che malattia aveva?
Schizofrenia. Ma dietro questa parola c’è un intero mondo. Tu che fai questi studi, saprai che la psichiatria di allora non è più la psichiatria di oggi. Mi piace pensare che la malattia di Zelda non fosse affatto Zelda, ma una intermittenza mostruosa che si frapponeva tra lei e la vita; e anche tra lei e l’amore. Quando Fitzgerald parlava con lei, non dialogava con la malattia, ma con Zelda… ovunque lei si trovasse in quei momenti. Era l’unico capace di farlo.
In Fitzgerald è importantissimo il dato biografico. Solo che molti critici hanno cercato, come fai notare, di mettere da parte questo aspetto per “oggettivizzare” l’opera. Come mai ti sei distaccato da questa visione?
Ottavio Fatica sostiene che Fitzgerald aveva avuto nella vita due o tre esperienze a cui aveva dato un valore universale: tra queste, l’incontro con Zelda Sayre e l’ascesa sociale come scrittore. La critica italiana aveva isolato la prima, concentrandosi sulla leggenda del ricco e del rapporto di Fitzgerald con la ricchezza. Ciò secondo me era dovuto al fatto che le opere di Fitzgerald in Italia sono uscite in ordine casuale. Se invece leggiamo Fitzgerald in ordine cronologico, ci accorgiamo di come tutta la sua opera ruoti invece intorno al rapporto con Zelda. Certo, questa ipotesi è venuta dopo anche per me: come la maggior parte delle persone, ho cominciato anche io con Il grande Gatsby (grazie alla mia insegnante di letteratura inglese al liceo). C’è di più: quasi tutti i personaggi dell’opera fitzgeraldiana, compreso Gatsby, nascono poveri e non diventano ricchi per caso; se lo fanno, questo non è mai un fine, ma uno strumento – l’America allora era «la società dei quattrini a tutti i costi». Zelda si era rifiutata di sposarlo se prima Scott non fosse diventato ricco fino alle stelle. E così lui si buttò con tutto se stesso nell’unica chance che gli era rimasta: fare lo scrittore. Ma persino la scrittura viene in Fitzgerald dopo Zelda, sebbene sia in lui un dono naturale vero e proprio.
Oggi in letteratura, che sia prosa o poesia, ci sono degli scrittori rappresentativi della nostra epoca quale fu Fitzgerald? Abbiamo gli strumenti per osservarli e capirli e distaccarli rispetto ai veri scrittori minori?
È una considerazione assurda, lo ammetto: però Fitzgerald non fu affatto uno scrittore rappresentativo della propria epoca. O meglio, se parliamo di Età del Jazz come di solito si accosta F. Scott Fitzgerald all’Età del Jazz. Questo è il grande errore in cui sono caduti i suoi primi lettori e la maggior parte della critica: come ha evidenziato Fernanda Pivano, quando pubblicò Di qua dal Paradiso «i giovani gli balzarono incontro ad acclamarlo» come una specie di eroe antipuritano, mentre i vecchi, i genitori, avevano storto il naso di fronte a ciò che veniva loro raccontato a proposito delle avventure dei propri figli – entrambi comunque comprarono il libro. Però io cerco di mostrare anche l’altra faccia di Fitzgerald: quando Zelda si ammala, bisogna immaginare la coppia come se si fosse ritirata a vita privata. Solo che bisogna anche immaginarceli in piena guerra, reclusi, contro un mostro più grande di loro; la malattia. Ciò che è assurdo è proprio questo: la vita della coppia e la storia degli Stati Uniti sembrano coincidere; c’è il boom economico assieme al successo come scrittore; Zelda si ammala, l’America soffre la crisi economica; e così via. Posso citarmi, anche se è vergognoso? Ci serve solamente a capire meglio: Fitzgerald non descrive «lo specchio di una particolare società, ma il ritratto fedele di se stesso come personaggio che si muove in quella particolare società, ma che è preso da un dramma del tutto personale, individuale». Ok, non uccidermi, ma devo proprio farlo di nuovo. Su Flanerì con la rubrica L’isolamento del romantico americano ho provato a raccontare in che cosa Fitzgerald e la storia degli States coincidessero a pieno: si tratta della realizzazione del sogno americano attraverso la professione dello scrittore. Ecco, in questo Fitzgerald è stato per molto tempo un vero asso. A questo punto spero che nessuno sia arrivato davvero fino a qui o, se proprio ha sentito la necessità di farlo, che mi abbia preso talmente in antipatia da non volere sapere affatto chi secondo me sia uno degli scrittori italiani contemporanei maggiormente rappresentativi per noi. Sono stato troppo prolisso e non ho alcuna discolpa: l’ho fatto apposta.
F. Scott Fitzgerald e l’Italia, Giuliano Ladolfi Editore, Collana Smeraldo, 2018, 96 pp., 10 euro.
Nota biografica
Antonio Merola, classe 1994, ha pubblicato il saggio F. Scott Fitzgerald e l’Italia (Ladolfi, 2018). È cofondatore di YAWP: giornale di letterature e filosofie, per il quale gestisce oggi la sezione poetica. Si occupa inoltre dei Quaderni Barbarici su Patria Letteratura: una serie di plaquette dedicate agli inediti di alcune nuove voci poetiche contemporanee; e di Razzie Barbariche su Pioggia Obliqua: una rassegna dedicata alla poesia edita under 30. Sue poesie sono apparse su siti e riviste letterarie come A4 – la rivista su un foglio solo, il n. 89 della rivista Atelier, Nazione Indiana, Argo, Poetarum Silva, Nuova Ciminiera, Il Foglio Letterario, La Tigre di Carta e Pageambiente. Collabora o ha collaborato con Altri Animali, (Racconti Edizioni), Flanerì (per cui cura la rubrica L’isolamento del romantico americano), Lavoro Culturale, Midnight e Carmilla. Suoi racconti inediti sono apparsi su Nazione Indiana, Carmilla, Argo, Cultora, Frammenti Rivista, Il Pickwick, Reader For Blind e nel primo numero della Creatura.