Linda Fregni Nagler è una giovane artista italiana che si occupa di fotografia e lavora sul modello del ready made; vale a dire, non crea un’opera ma interviene su un’opera già costituita; la elabora cambiandone il significato o attribuendole uno nuovo. (I primi ready made si devono a Duchamp (Ruota di bicicletta, 1913, esposta come opera d’arte). Dal Dadaismo in poi fino a oggi molti artisti (Warhol per tutti) sono intervenuti sul lavoro altrui, spesso con stimolanti risultati di contaminazione e riletture critiche).
Fregni Nagler lavora con serie di foto realizzate principalmente da fotografi commerciali, anonimi e ignoti che adottano modelli visivi correnti. Sceglie le immagini (spesso estrapolate da riviste e giornali comuni), le impagina e le ricontestualizza in modo che esse forniscano nuove chiavi di lettura, soprattutto riguardo agli stereotipi che le sottintendono.[1]
Esemplare una sua opera, The hidden mother, esposta alla Biennale di Venezia del 2013, dov’erano in mostra circa novecento piccole foto anonime di fine ‘800, di bambini neonati tenuti in braccio da madri il cui volto era stato coperto, cancellato, oppure tagliato fuori dall’immagine; in cui, per vari motivi, dovevano apparire solo i bambini. L’accostamento delle stampe, (alcune dall’aspetto curiosamente sinistro) raccolte in diversi gruppi, conferiva nuovi significati, suscitando negli osservatori inattese reazioni di stupore e sconcerto.
Nella mostra Yama no Shashin (Fotografie della montagna), Fregni Nagler presenta una serie di foto realizzate negli atelier della Scuola di Yokohama, (scuola sviluppata anche per merito degli italiani Felice Beato e Adolfo Farsari, geniali fotografi un po’ avventurieri), che lavoravano soprattutto per il mercato occidentale. Queste immagini, scattate da centinaia di artefici giapponesi, illustrano scene tradizionali di vita quotidiana nel periodo della modernizzazione e dell’apertura delle frontiere (epoca Meiji, 1868-1912).
Questa cospicua produzione s’inserisce nella scia tracciata dalla diffusione e dal successo delle xilografie ukiyo-e, che influenzarono la cultura e l’arte europea (tra gli altri, pittori come Manet, Van Gogh e Gauguin) della seconda metà dell’Ottocento.
La Scuola di Yokohama impiegava numerosi atelier, dove una miriade di artigiani anonimi lavorava negli studi con ritmi da catena di montaggio. Fotografi, stampatori e coloristi (le foto sono dipinte, una a una, a mano) realizzarono una gran mole di stampe per il mercato locale ma, soprattutto, estero.
Come Fregni Nagler mette in evidenza, ci si accorge con sorpresa che l’enorme materiale fotografico prodotto non documenta la realtà della vita corrente, ma la mette in scena secondo uno stereotipo finalizzato a sollecitare il gusto occidentale per l’esotismo, al fine di promuovere il collezionismo, i commerci, il turismo degli albori.
Il lavoro su Yama no Shashin nasce dalla passione di Fregni Nagler per le stampe della Scuola di Yokohama, che raccoglie da diversi anni. Decide di selezionarle e ne sceglie un certo numero. Non si limita, tuttavia, a proporle (come le foto di The hidden mother) con un’operazione di carattere puramente concettuale, ma se ne appropria; in quanto, forte della sua esperienza presso un noto laboratorio fotografico di Milano, ne ripete il processo tecnico d’elaborazione originale. Le ri-fotografa, ristampa e dipinge a mano attenendosi ai pigmenti e tinte originali. Il suo intervento è rivelato dalle piccole zone lasciate in grigio nella superficie colorata. Quindi, le raccoglie e ordina in serie; le presenta come ready made.
È interessante e curioso osservare con attenzione la singolare messa in scena impiegata nella serie Yama no Shashin, esposta alla mostra. Lo stesso soggetto, la veduta di paesaggio, viene riproposto e ripetuto in molti scatti di fotografi diversi. Dove neppure l’osservatore più scrupoloso riesce a notare la sostanziale differenza.
Così la serie del Fuji from Otometoge[2] mostra quarantasette stampe dello stesso Fuji, colte dal medesimo punto di vista e costruite con gli stessi soggetti e inquadrature. Sono scatti apparentemente identici.
In realtà, quello che si ripete in ciascun’identica inquadratura sono le piccole differenze. Tuttavia, qui, la sostanziale differenza è quella temporale. Poiché, e questo è stupefacente, sappiamo che sono scatti realizzati da fotografi diversi in tempi diversi, sovente a distanza di mesi. Si raggiunge, quindi, l’identità nella differenza (d’autore e tempo). Le differenze confluiscono nell’identità ideale, confermandola.[3] Tuttavia, poiché le immagini dovevano sottomettersi a un modello iconografico consolidato e assoluto, era necessario escludere la dimensione storica, del tempo. Quindi, come si è già detto, esse non documentano la realtà del Giappone, ma ne forniscono una versione astratta.
Altre serie, come quella dei venditori di fiori, Flower Sellers o di diversi personaggi in interni, presentano finzioni realizzate in studio con una sapiente confezione di costumi, arredi e fondali. Non solo il tempo, ma anche lo spazio diventa una finzione ricreata in studio.
Anche da quest’accurato lavoro di Fregni Nagler, emergono i concetti spazio/temporali che sostanziano la cultura giapponese. Sintetizzati in un esempio, questi sono evidenti nella pratica che induce all’abbattimento dei templi e la loro ricostruzione identica, nello stesso luogo, dopo un certo periodo d’anni. Il tempio non cambia, resta identico a se stesso, il tempo non lo travolge né corrompe. Anche lo spazio, a sua volta, non può essere che mentale, vuoto e sempre uguale. È abitato dall’oggetto formalizzato messo in scena, che lo riempie. Segno che, identico si ripete.
La proposta di presentare Yama no Shashin al termine d’un processo di rilettura e “manipolazione” (seppure molto discreta) come quella sopra descritta, ci permette di osservare alcuni aspetti interessanti.
In primo luogo, quei caratteri di ambiguità dell’immagine fotografica e del suo presunto “vero”. Quindi, la falsificazione nella rappresentazione della realtà; e la creazione laboriosa, più o meno consapevole, del modello visivo d’una realtà formalizzata e atemporale che si intende confermare all’esterno ma, inevitabilmente, anche a se stessi. Infine sottolinea il carattere creativo dell’intervento artistico sull’oggetto o materiale su cui opera.
La mostra è ospitata presso la Banca Generali Private
sede di Milano, Piazza Sant’Alessandro 4
e rimarrà aperta fino al 7 aprile 2019.
Per contatti: receptionprivatemi@bancagenerali.it
Note
[1] Abbiamo visto come l’impiego nell’arte del ready made (oggetto già fatto, manufatto d’uso comune) inizi col Dadaismo. È importante, altresì, notare che nello stesso periodo si sviluppano le fondamentali ricerche iconologiche dell’Istituto Warburg di Londra. Il cui programma d’indagine concettuale e storica riguarda i prodotti delle cosiddette “arti minori”, materiali, oggetti (il ready made può essere, addirittura, un oggetto comune, popolare, commerciale (vedi Warhol) o, addirittura, un relitto malconcio), realizzati da artigiani e maestranze anonime, al fine di rivelare l’immaginario, i valori condivisi e i significati culturali che informano un’epoca e una società.
[2] Queste fotografie sono chiaramente ispirate alle famose stampe di Hokusai, Cento vedute del monte Fuji, assai note e apprezzate in Occidente.
[3] Anche le Madonne dipinte dai pittori senesi del 1300 rispettano tutte lo stesso codice iconografico; tuttavia, ogni dipinto differisce dall’altro per minime variazioni (che corrispondono a variazioni di senso) dipendenti dalla personalità dell’artista. Fin qui l’identità è salvaguardata, tuttavia, di differenza in differenza si giunge alla rottura, alla trasformazione di un codice che non corrisponde più a una realtà mutevole e, quindi, si deve rinnovare. L’immagine partecipa al processo storico, evolve nel tempo.
Nell’anonimo artefice giapponese, invece, la differenza seppur inconsapevole, è un incidente da evitare. Perseguita, dissolve l’identità. E non solo quella dell’opera.