Se si digita in Google il termine “cacciatori d’ombra” i risultati portano a differenti argomenti: una serie televisiva statunitense, un sito che riguarda un club fotografico, un terzo link che rimanda all’acquisto di un libro d’immagini raffiguranti Indiani d’America, i quali chiamarono con questo appellativo i primi fotografi che incontrarono. Ma nessuna delle pagine internet visualizzabili collega questo nome al cacciatore d’ombra per eccellenza, una persona affetta da protoporfiria eritropoietica.
Per definire meglio l’argomento e spiegare perché queste persone sono dei veri intenditori d’ombre, è necessario fare un viaggio immergendoci nel colore rosso.
Il rosso è uno dei colori primari e possiede un grandissimo numero di significati; a livello cognitivo è il più stimolante ed attira maggiormente l’attenzione rispetto agli altri colori dello spetro; esprime velocità, potere, gioia, pericolo e passione.
Per descrivere un cacciatore d’ombra si deve inoltre approfondire l’ambito delle malattie genetiche studiate dai biologi, per i quali il colore rosso simboleggia un’unica cosa: il sangue. Esso è la fonte per eccellenza di vita, un tessuto fluido di tipo connettivo, che circola nei vasi sanguinei di tutti gli animali garantendo molteplici funzioni metaboliche.
Circa il 7% del peso corporeo dell’essere umano adulto è dato dal sangue: ne possediamo dai 3 ai 4 litri, di cui, 1,5 litri costituiscono il midollo osseo. Quest’ultimo ogni giorno libera nel circolo circa 250 miliardi di globuli rossi, 15 miliardi di globuli bianchi e 500 miliardi di piastrine.
Ma a cosa serve questo viaggio nel colore rosso per descrivere un cacciatore d’ombra? e perché tutto ciò ci ha catapultati nella biologia e in particolar modo nel sangue?
Perché il rosso è strettamente collegato all’aspetto sintomatologico del paziente affetto da protoporfiria eritropoietica, mentre nel sangue si trova l’origine del suo male, più precisamente all’interno del globulo rosso. Osservandone uno al microscopio, balza subito all’occhio la sua particolare forma a vasca (disco biconcavo) delimitata da una membrana plasmatica. Se focalizziamo il suo interno esso appare invaso da innumerevoli matasse, che ricordano dei fili da cucito ingarbugliati lasciati a terra da una sarta dopo una lunga giornata di lavoro. Ma a livello cellulare questi agglomerati corrispondono a un importante composto multi-proteico chiamato emoglobina; a quest’ultima è legato un altro componente importantissimo chiamato eme. Quest’ultimo, usando l’immaginazione, potrebbe essere definito come una casa le cui pareti sono costituite principalmente da atomi di carbonio all’interno della quale vive un unico inquilino, il ferro.
Quello appena descritto è tutto ciò che gli individui sani hanno all’interno del proprio circolo sanguineo. Ma esistono molteplici patologie genetiche che coinvolgono differenti componenti di questa cellula meravigliosa quanto vitale.
Ciò che interessa a noi per definire il profilo del cacciatore d’ombra sono tutti quei difetti che colpiscono la produzione di eme (la casa del ferro). Il processo di produzione dell’eme è paragonabile a una catena di montaggio alla Tempi moderni, nella quale il danno nella costruzione di un oggetto complesso dipende dal punto di introduzione dell’errore. Se l’operaio che sbaglia si trova a monte del nastro trasportatore, l’oggetto apparirà incompleto e gli operai successivi non potranno assemblare il proprio pezzo che andrà ad accumularsi; mentre se l’errore verrà introdotto a valle l’oggetto apparirà maggiormente completo ma comunque malfunzionante. La stessa cosa vale per la costruzione dei composti chimici complicati come l’eme, con la differenza che l’operaio, in questo ambito, si chiama enzima. Per costruire l’eme servono 8 enzimi, ognuno con il compito di assemblare un unico pezzo che servirà alla costruzione della casa del ferro. Se malfunzionante ogni enzima porta all’accumulo di un determinato componente; questo comporta un’intossicazione del sangue che è causa di patologie con sintomatologia differente, ma raggruppabili sotto il nome di “porfirie”.
Per fare due esempi di porfiria dovuti a danni degli enzimi a monte e valle della catena di produzione si può citare in primis una delle forme di porfiria più frequente, che prende il nome di porfiria acuta intermittente, la quale provoca nei pazienti affetti sintomatologia di tipo neuro-viscerale. Esistono personaggi storici noti a cui è stata diagnosticata la porfiria acuta intermittente con 200 o 300 anni di ritardo: uno di questi è Giorgio III d’Inghilterra; presumibilmente anche il filosofo Jean-Jacques Rousseau e il pittore Van Gogh.
Mentre l’esempio di porfiria causata dall’introduzione di errori nell’ultimo enzima a valle nella catena di produzione è riconducibile al cacciatore d’ombra (protoporfiria eritropoietica), la cui sintomatologia è dovuta all’accumulo in tutti gli organi del pezzo malfunzionante denominato protoporfirina-IX.
La singolare caratteristica che possiede questa molecola è la capacità di assorbire energia proveniente dalla luce solare, in particolar modo nella lunghezza d’onda del blu. L’energia assorbita, però, non riesce ad essere utilizzata in modo funzionale; per ragioni fisiche e chimiche viene convertita in luce rossa; questo passaggio sprigiona energia libera che diventa instabile, ed è paragonabile a una bomba che innescata è pronta a scoppiare distruggendo tutto ciò che incontra.
La sede dell’esplosione è la pelle, cioè l’organo maggiormente esposto alla luce solare e carico di protoporfirina-IX. I pazienti affetti da protoporfiria eritropoietica avvertono i primi sintomi in tempistiche brevi, a partire da 5/10 minuti d’esposizione solare. Tali sintomi consistono in formicolio e bruciore senza danni cutanei visibili. I sintomi aumentano esponenzialmente con l’incremento del tempo d’esposizione trasformandosi in: forte dolore, gonfiore, bruciature e lesioni cutanee anche permanenti.
Per questi pazienti diventa vitale sfuggire alla luce. Il modo migliore per farlo è “cacciare l’ombra” diventandone perciò massimi esperti, riuscendo ad individuarla e seguirla in ogni istante modificando il proprio tragitto in base ad essa, come creandosi una mappa delle ombre utile per trovare la strada meno pericolosa. Tutto ciò implica molteplici limitazioni; azioni semplici per persone comuni come guidare l’auto per recarsi al lavoro, andare a prendere i bambini a scuola, camminare per strada, andare a fare la spesa, diventano delle sfide.
Se dovesse mai succederci d’incontrare un paziente affetto da questa patologia in piena estate, lo riconosceremmo tra mille perché potrebbe presentarsi con ombrello, cappello, guanti, scarpe chiuse e vestiti lunghi. Se ci mettessimo a camminare assieme a lui in città, ci ritroveremmo a seguire un percorso a ostacoli tra luce e ombra, scegliendo soprattutto le ombre fitte generate da un muro, un monumento, un cornicione o un porticato. Percorsi alternativi, creati unicamente per avvertire il meno possibile quel dolore forte ed inconsolabile (simile a un’ustione da fuoco), che una giornata assolata, riconosciuta dall’intero mondo come splendida, gli può causare, trasformandosi in un vero incubo.
Bibliografia
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