Ai margini della mostra su Magritte, fino al 6 gennaio 2019 presso il LAC di Lugano.
La figura umana è un’assidua presenza nei dipinti dell’artista belga René Magritte (Lessines 1898/Bruxelles 1967). Si tratta di un borghese composto e irreprensibile, inappuntabilmente abbigliato con camicia bianca, cravatta, bombetta e soprabito scuro. Quasi una divisa. Un prototipo d’uomo seriale, rappresentato frontalmente o di spalle. Quest’uomo ha spesso davanti al viso una mela o qualche altro oggetto che lo copre (lo sostituisce). Il frutto (perfetto, sferico) ha la stessa importanza del viso. Quando si vedono gli occhi, lo sguardo è fisso davanti a sé, nel vuoto. Figura spersonalizzata e reificata. In Camera d’ascolto (1958) un’enorme mela occupa interamente una stanza. Sostituisce l’inquilino; ha la medesima, perfetta impassibilità borghese. Magritte si riconosce in questo tipo umano, ne conosce e vive la medesima alienazione.
Nella famosa conferenza La ligne de vie, tenuta ad Anversa nel 1938, si proclama fieramente avverso alla società borghese capitalista e fautore della rivoluzione proletaria, l’unica, a suo avviso, in grado di trasformare il mondo. Inoltre sostiene che soltanto il Surrealismo può liberare quelle capacità e forze spirituali latenti nell’uomo ma soffocate dalla morale religiosa, civile e militare. Denuncia lo stato dell’arte borghese fondato su un’ottusa gradevolezza e asservita alla mercificazione, dominata dal mero valore commerciale dell’opera.
Rivendica per l’uomo una libertà totale, quella di cui godiamo nei sogni, che Freud e il Surrealismo hanno posto all’attenzione generale, soprattutto degli artisti. Al mondo onirico e a quello dell’inconscio egli privilegia, tuttavia, lo stato della veglia. È qui che si rivela il mistero della realtà quotidiana insieme all’esigenza di svelarlo. È qui, dunque, che ci si deve liberare, scoprendone gli inganni e le menzogne. Le sue riflessioni e le opere che ne scaturiscono perseguono tenacemente questo fine.
La realtà e il linguaggio delle immagini sono ambigui e fuorvianti. Questo ci rivela la sua pittura, cupa e sempre consapevolmente ambigua. È possibile ipotizzare che l’origine di tale atteggiamento risalga alla morte della madre suicida, annegata in un fiume. Pare che il quattordicenne René, ne avesse visto il corpo nudo, ripescato dall’acqua, con la camicia da notte bianca avvolta intorno alla testa. Nei dipinti Gli amanti (1928), Magritte mostra due teste avviluppate in un drappo bianco, accostate in un impossibile bacio. Il diaframma posto tra i volti, testimonia un’insuperabile condizione d’incomunicabilità. L’ispirazione per quest’opera pare gli sia suscitata dalla visione del dipinto di De Chirico Ettore e Andromaca, dove due manichini geometrici tentano un arduo abbraccio. L’artista belga si accosta al futurismo e a De Chirico in particolare, spinto dall’esigenza di rivoluzionare la concezione borghese dell’arte. Del maestro della Metafisica ammira Canto d’amore (1910) “dove stanno insieme un guanto da boxe e il volto d’una scultura classica”. Ecco dunque, il Surrealismo, definito da Max Ernst con la celebre frase del poeta Isidore Ducasse (1846-1870), “bello come l’incontro fortuito su un tavolo di obitorio di una macchina da cucire e di un ombrello”.
L’artista belga, tuttavia, non si limita ad adottare, del Surrealismo, gli accostamenti incongrui di oggetti, geniale operazione in grado di far scattare imprevedibili emozioni. Egli vuole portare alla luce una realtà più profonda, soffocata dalla consuetudine di una visione convenzionale che non deve sorprendere né, tantomeno, inquietare.
Un effetto sconvolgente in tale senso è ottenuto dalla decontestualizzazione di oggetti, soprattutto domestici e famigliari. Fuori dal loro ambito, essi mettono a nudo sia l’aspetto misterioso della realtà, sia il loro potere evocativo. Le gambe tornite d’un tavolo grandi come alberi in una foresta ci appaiono in una dimensione nuova; così il cielo con delle crepe come fosse di pietra; lo stesso effetto provocano un cielo di legno o dei massi sospesi nell’aria, ecc.
Un paio di stivaletti slacciati che, prolungandosi, termina con le nude dita dei piedi (Il modello rosso, 1953) suggerisce una strana inquietudine. Non tanto per il significato che ne traspare, vale a dire il contrasto tra la costrizione della calzatura e la libertà del piede nudo; quanto per la perversione dell’immagine.
Diverso turbamento suscita un cielo diurno che fa da sfondo a un paesaggio notturno (serie L’impero della luce, 1949-64). Tutto è perfettamente logico, reale, ma c’è qualcosa che non va, qualcosa che sottilmente disturba.
Esemplare è la situazione di Il nottambulo, (1927-28). Vediamo l’interno d’una stanza illuminata sinistramente dal lampione d’una strada notturna. La stanza ha dei mobili piccoli, richiama l’infanzia, e qui appare come invasa dall’esterno buio e angosciante della strada. La sagoma oscura del nottambulo, in bombetta e cappotto, sembra la figura del turbamento provocato dal non saper bene dove ci si trovi e dalla presenza di un’infanzia minacciata da un ignoto rimosso.
Ulteriori ansie e sorprese sono suscitate osservando una sorta di teatrini dove brani di cielo d’un fondale vengono in avanti disponendosi arbitrariamente sulla ribalta come strani personaggi, giocando sul rapporto figura/sfondo e sulle loro ambigue sovrapposizioni. Dov’è la realtà? Questa situazione di dissimulazione/svelamento è evidente in un dipinto come La condizione umana (1933), dove la veduta raffigurata sulla tela copre esattamente la veduta reale che si trova dietro di essa, fuori dalla finestra. Questo è chiaro perché una piccola porzione della tenda, nascosta dalla tela e il bordo di quest’ultima ne mostrano la presenza. Lo spaesamento, in questo caso, è provocato dalla perfetta aderenza della rappresentazione con l’oggetto. Due minimi dettagli li distingue. Dileguati questi dettagli, dove starebbe la realtà? Inoltre, facendo un passo in avanti, ci rendiamo conto che, mentre distinguiamo il paesaggio raffigurato da quello reale, dimentichiamo che quello che vediamo è un dipinto nel dipinto di un dipinto. Il reale si perde in un abisso di rimandi. Quindi scompare?
Magritte intende, dunque, scardinare le convenzioni vigenti, operando sulla relazione tra rappresentazione e linguaggio, e sul rapporto tra quest’ultimo e realtà. Una formidabile anticipazione dell’Arte Concettuale degli anni ’60 del novecento. Anche i titoli, afferma, non devono spiegare il dipinto, ma sviare e disorientare l’osservatore. Si crea in questo modo un corto circuito tra titolo e opera. Per esempio, nella serie del famoso Il tradimento delle immagini dove la didascalia Ceci n’est pas une pipe (Questa non è una pipa), mette in crisi la convenzione che lega oggetto all’immagine, secondo cui quella rappresentata è, senz’ombra di dubbio, una pipa. In realtà Questa, vale a dire l’immagine, è un dipinto, la pipa reale è un’altra cosa. Tuttavia succede anche che la pipa della didascalia sia tutt’altro che una pipa: è una parola. Come anche Questa è una parola, non una pipa, come invece si sostiene nella frase. Tre casi che, come rileva Foucault, mostrano l’ambiguità del linguaggio e come decada la “verità” che il linguaggio cerca di codificare.
Magritte sostiene che linguaggio e immagini sono convenzioni ben distinte dalla realtà; mentre la stessa realtà ha una ”verità” che ogni definizione tradisce. L’oggetto, infatti, non è la sua definizione. Tra loro esiste uno scarto incolmabile. Di questo, egli ci avverte, si deve essere ben consapevoli.