Starry Starry Sight

La luce oltre il buio negli scatti del Seeing With Photography Collective

La luce. Dolce, pericolosa, sognante, viva, morta, chiara, nebbiosa, calda, violenta, nuda, improvvisa, cupa, primaverile, proveniente dall’esterno, proveniente dall’interno, verticale, obliqua, sensuale, smorzata, delimitante, velenosa, rasserenante, luminosa. La luce.

(Ingmar Bergman, Lanterna magica)

Rifletto sull’Oscuramento della luce ascoltando Vincent, una ballata del cantautore americano Don McLean dedicata a Van Gogh. La malinconia ipnotica che diffonde è compensata dalla bellezza delle parole: «Starry starry night / paint your palette blue and grey / look out on a summer’s day / with eyes that know the darkness in my soul».

Darkness, oscurità. Ecco il nesso. Mi metto in cerca dell’oscurità vista come un trampolino e non come una battuta d’arresto. Perlustro terre di confine dove artisti visuali si muovono tra cecità e visione tessendo orditi tra la luce e la sua negazione. Quando mi imbatto nel sito del Seeing With Photography Collective, rimango incantata dalle immagini che vedo: energia e creatività sgorgano da ogni scatto.

Devil Dogs and Vodka di Stephen Dominguez, SWPC

“Devil Dogs and Vodka”, di Stephen Dominguez

La vista sembrerebbe uno strumento indispensabile per un fotografo. Ma cosa significa davvero vedere? Molti membri del SWPC si sono avvicinati alla fotografia dopo aver perso la vista. Tra loro anche Steve Erra che racconta la sua esperienza come «qualcosa di memorabile nel creare immagini al buio e con il buio: tutti noi, vedenti e non vedenti, pensiamo, proviamo, ridiamo, descriviamo, ascoltiamo… intrecciamo qualcosa».

Il collettivo si fonda sulla collaborazione tra fotografi vedenti e non vedenti. Il loro lavoro, pubblicato da Aperture nel volume Shooting Blind, è stato portato in giro per il mondo attraverso workshop e mostre in Canada, Stati Uniti, Messico, Cile, Gran Bretagna, Olanda, Svezia, Russia e Italia (Perugia Social Photo festival 2016).

L’idea nasce da Mark Andres che, dopo dieci anni di insegnamento della fotografia in classi di studenti non vedenti, si interroga sul tipo di fotografia possibile per persone con diversi livelli di disabilità visiva: «Il nostro viaggio è iniziato con un nuovo modo di fare fotografie che coinvolge il cervello, il corpo e tutti i nostri sensi. La nostra domanda è stata: come riesci a vedere quando non puoi vedere con i tuoi occhi? Come puoi trasmettere queste visioni?».

Queste fotografie sono frutto della collaborazione tra chi lancia un’idea, chi sistema il set, chi lo illumina, chi posa, chi mette a fuoco e inquadra. Infine si spegne la luce nella stanza e l’otturatore si prepara a sbadigliare per un tempo lungo anche 15 o 30 minuti mentre flash e torce volteggiano nel buio eseguendo una coreografia di light painting. Che cosa può esserci di più intuitivo per un fotografo non vedente se non scattare fotografie al buio?

Le immagini in bianco e nero sono scattate principalmente con una fotocamera Speed Graphic 4×5 come quella usata da Weegee, fotografo della delinquenza notturna nella New York anni Trenta e Quaranta. La pellicola prescelta è la Polaroid Positive Negative in grado sia di rilasciare immediatamente una modesta stampa di circa 10×13 cm, sia di fornire un buon negativo utilizzabile per stampe di alta qualità.

Le immagini del SWPC sono sogni, ricordi, allucinazioni, visioni e suggestioni che lasciano volentieri spazio al caso e alle imperfezioni che colorano le foto con la verità della vita.

Untitled, Portrait of Sasha e The Form of Extinction Is Not Inelegant sono tre scatti di Steve Erra. Una bocca, un naso, occhi dissolti nel volto sfocatissimo, diafano, eppure così setosamente afferrabile. Gli occhi chiusi sembrano assaporare le acuite potenzialità degli altri sensi mentre un nero morbido ovatta tocchi di luce troppo accesi.

«I sensi possono morire – spiega Steve – ma sorprendentemente, adattamento e compensazione si espandono. Prima era solo un’idea astratta. Ora è una nitida verità: l’oscurità arricchisce il processo creativo».

"The form of extinction is not inelegant", di Steve Erra

“The form of extinction is not inelegant”, di Steve Erra

Se il ritratto di Sasha è sfocato, importa poco. Persiste, infatti, un focus che attira lo sguardo come una lanterna calda in mezzo alla tempesta di neve: è l’occhio che guarda dritto e senza ostacoli mentre l’altro naufraga alla deriva nel bianco abbacinante. Nello scatto The Form of Extinction Is Not Inelegant, un vassoio in avanzato stato di ossidazione diventa uno specchio che ci restituisce un volto ignoto. La superficie lattiginosa ammalia come l’apparizione improvvisa e fugace di un ricordo inebriante. Temo di diradare la magia rivelando che il vassoio è stato rivestito di mentolata crema da barba; ma mi assumo questa responsabilità, perché l’inventiva è da premiare. In effetti, però, importa davvero come è stata fatta? Anche sapendolo, la schiuma non ce la vedo. O meglio, la vedo, ma me ne dimentico subito mentre affondo in quello sguardo come un sasso tra liquidi cerchi concentrici.

Tra occhi in ascolto di una pioggia luminosa lungo il viso e rivoli di luce elettrica che irrorano di energia rivitalizzante una sagoma immobile, si affaccia il dilemma di Winter Garden: avvicinarsi per ammirare le pennellate impressioniste di una realtà frammentaria o indietreggiare per cogliere meglio l’insieme? L’immagine innesca la curiosità di capirne il contesto, ma al tempo stesso si nutre del proprio fascino misterioso.

Per citare il fotografo Mario Giacomelli: «Lo sfocato, il mosso, la grana, il bianco mangiato, il nero chiuso sono come esplosione del pensiero che dà durata all’immagine, perché si spiritualizzi in armonia con la materia, con la realtà, per documentare l’interiorità, il dramma della vita».

Nello scatto di Sonia Soberats e Donald Martinez, la miracolosa Manna arriva dall’alto zampillando lapilli di lucine natalizie. La co-autrice descrive, con queste parole riportate nel New York Times, che cosa abbia significato per lei entrare a far parte del SWPC: «Entri nell’immagine e ti dimentichi di quello che hai intorno e che sei non vedente. La nostra mente è immensa. Puoi considerare e riesaminare tutto per ottenere le informazioni di cui hai bisogno».

Riesaminando il mio archivio mentale, trovo una corrispondenza: Englishman with a Torch potrebbe essere l’immagine speculare dell’autoritratto testamentario di Mapplethorpe del 1988. In entrambe il soggetto è seduto, lo sguardo è in camera e la mano in primo piano cinge un bastone (o una torcia). Tuttavia, la differenza sostanziale è che lo scettro qui è sormontato da una mezzaluna di filamenti scintillanti anziché da un teschio.

A girl who caught fire di Victorine Floyd Fludd

“A girl who caught fire”, di Victorine Floyd Fludd

A Girl Who Caught Fire appartiene a una serie di foto che Victorine Floyd Fludd ha scattato ispirandosi al ricordo di una ragazza morta in un incendio ad Antigua. Vicky, come la chiamano nel Collective, è stata una delle prime persone non vedenti a illuminare e dipingere autonomamente facendo danzare intorno e sopra di sé due piccole Mag-Lite, torce elettriche professionali che permettono di regolare l’ampiezza del fascio luminoso. In Radiant Abyss il suo volto si trasforma in una grossa pupilla di un nero denso ma non vuoto: «Un buco dal quale però – commenta Victorine – si irradia la luce».

Una superficie che assorbe e riflette come «una macchina fotografica che scatta nelle due direzioni, avanti e indietro, fondendo le due immagini così che il “dietro” si diffonde nel “davanti”, essa permette al fotografo nel momento stesso dello scatto di stare insieme ai soggetti e non separato da loro. Attraverso il mirino, può saltare fuori dalla sua conchiglia per ritrovarsi “sull’altra riva del mondo”, e poter in tal modo ricordare meglio, capire meglio, vedere meglio, ascoltare meglio e amare più profondamente» (Wim Wenders, Once. Pictures and stories, Munich, Schirmer/Mosel, 2001).

www.seeingwithphotography.com
www.flickr.com/photos/seeingwithphotography

di Anna Laviosa

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