Stalking: un reato difficile

Lo stalker vive nell’ombra e adombra le vite altrui

Fate una prova. Chiedete a una persona qualsiasi di raccontarvi il primo reato che le viene in mente.

Già immagino un tripudio di truffe, di omicidi, di furti e di rapine: reati della cosiddetta “criminalità comune”, senza fronzoli, piuttosto semplici da descrivere – talvolta anche facili da commettere.

La truffa prevede che, inducendo qualcuno in errore con dei giochi di prestigio, lo si impoverisca, arricchendosi. L’omicidio consiste nel causare volontariamente la morte di qualcuno, con qualsiasi mezzo. Si commette un furto impossessandosi di un oggetto altrui, ma se lo si fa con violenza o minaccia già diventa una rapina.

I reati semplici spesso possono essere portati a termine con poche azioni; anche per questo sono facili da esporre e da riconoscere se capita di entrarci in contatto; in quel caso è sempre bene avvertire le forze dell’ordine.

Accanto a questi reati facili ci sono anche reati difficili: non solo da commettere, anche da descrivere.

Tra i reati difficili c’è senz’altro lo stalking, ossia la prima cosa che mi è venuta in mente appena ho appurato che l’esagramma di questo numero tratta dell’ombra, dell’oscurità, dell’ottenebramento della luce.

In realtà pensare allo stalker come a qualcuno che, necessariamente vestito con un lungo impermeabile e un cappello a tesa larga, segue le persone di notte nelle strade poco illuminate è quanto di più lontano esista dalla realtà. Lo stalker ha quasi sempre un nome, un cognome, un viso noto; compie il suo delitto di giorno, spesso con meccanismi tracciabili e alla luce del sole.

Una battuta che ho sentito spesso recita più o meno così: «Quando è gradito, è corteggiamento; quando è sgradito, è stalking». Effettivamente, è ben possibile compiere degli atti persecutori attraverso messaggi, telefonate, biglietti, addirittura mazzi di fiori… se sono comportamenti spiacevoli o molesti.

Il problema è proprio quello: la difficoltà del delitto in esame è che la condotta del persecutore può non differenziarsi, sul piano empirico, da quella di un corteggiatore spregiudicato o di un fidanzato appiccicoso.

I messaggi rimangono messaggi, le telefonate pure, i biglietti anche; molto dipende dal contenuto delle comunicazioni, ma non soltanto. Lo stalking non è solo qualche messaggio di troppo: è un reato che comprende anche appostamenti e pedinamenti, minacce, insulti, accessi alle e-mail o ai social network; ancora, comportamenti tenuti solo per rovinare la vita altrui. In quei casi non si confonde più col corteggiamento e ricorda più la fine di una relazione.

Fin qui son riuscito a spiegare solo che le condotte che confluiscono nel reato di stalking sono le più varie: già questo è un punto che ne sottolinea l’ambivalenza.

Fino al febbraio del 2009, tra l’altro, il reato di “atti persecutori” non esisteva per come oggi lo conosciamo: si puniva il persecutore volta per volta, in base al singolo messaggio ingiurioso o minaccioso, per la singola diffamazione, per il singolo accesso abusivo al sistema informatico, per la molestia, la violenza privata o il danneggiamento in cui sfociava ogni comportamento che la vittima era costretta a sopportare. Reati puniti pochissimo e non corredati dalla possibilità di fare qualcosa in itinere: allontanare il persecutore dalla vittima, non permettergli di avvicinarsi.

Solo nell’ambito della convivenza si poteva ravvisare un altro delitto, quello dei maltrattamenti in famiglia: un reato gravissimo, con una storia a sé, comunque recentemente ampliato anche sul piano cautelare.

Ricordiamo poi che lo stalking è un tipico reato commesso dagli uomini, e vede le donne come vittime in circa tre casi su quattro[1]: negli ultimi anni si è data un’importanza sempre crescente alla lotta alla violenza di genere, e tra i passi fondamentali in materia si può senz’altro annoverare l’introduzione del delitto di “atti persecutori” all’interno del nostro codice penale, all’articolo 612 bis.

È stato un decreto legge del febbraio 2009 a inserire il reato di stalking nel nostro ordinamento giuridico: già la scelta del mezzo ha fatto discutere. La legislazione d’urgenza mal si concilia con le esigenze di certezza e di ponderazione del diritto penale.

Anche a voler prescindere dal mezzo, lo stesso reato è stato formulato in maniera piuttosto confusa. Ad oggi in Italia lo stalking è il fatto di chi, «con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita».

Per prima cosa, la norma dà sfoggio di un burocratese terribile. La prossima volta che state organizzando una cena e volete chiedere a qualcuno se verrà anche il partner, vi invito a dire «ah, viene anche la persona a te legata da relazione affettiva?». Riceverete insulti variopinti.

Ma tralasciando queste violenze alla lingua di Dante, ci sono altri dettagli inquietanti, che gli studiosi hanno fatto notare prontamente[2].

Letta la definizione del reato di stalking, ci si rende conto che manca una vera descrizione fenomenica, oggettiva, empirica della condotta del persecutore. Si dice che devono essere condotte reiterate: quindi più d’una. A parte questo, però, non sappiamo se bastano due o ne servano tre; se quattro comportamenti gravi siano meglio o peggio di dieci atti più lievi. Nemmeno è chiaro l’arco temporale in cui queste condotte devono manifestarsi.

Sappiamo che devono essere minacce o molestie: ma la minaccia può anche consistere nel «se non mi rispondi, ti vengo a fare gli scherzi al citofono». La molestia dipende molto dalla soglia di tolleranza del molestato.

Ancora peggio quando si giunge a dire che integra il reato il «grave stato di ansia o di paura» causato alla vittima. Come si fa a stabilire se è vero che la vittima ne ha sofferto, senza avvalersi di uno specialista che, durante il processo, dovrà scandagliare la mente della persona offesa dopo anni dal reato? Come stabilire quando tale stato d’ansia e di paura diventa “grave” a sufficienza?

La norma prosegue dicendoci che sono rilevanti anche le condotte che ingenerano «un fondato timore per l’incolumità» propria o dei propri cari. Anche in questo caso si tratta di operare su “sensazioni” soggettive, che devono essere vagliate da uno psicologo dopo un lungo lasso di tempo.

La grossa pecca del reato, così strutturato, sta proprio nel fatto che la maggior parte della sua definizione si basa sulle peregrinazioni degli stati psicologici della vittima: se lo stalker perseguitasse una persona imperturbabile, per nulla prona all’ansia o al turbamento, rischierebbe di non essere punito. All’opposto si potrebbe punire chi, con qualche lieve comportamento ripetuto, avesse causato uno stato d’ansia o di timore a una persona predisposta a soffrirne.

Oltre a ciò, permane il dubbio sulla sondabilità all’esterno degli stati d’animo; e non per ragioni scientifiche o letterarie, ma come elemento imprescindibile per fondare una condanna penale.

Dunque, la necessità di criminalizzare le persecuzioni va ribadita: non possiamo certo rinunciare a un tassello fondamentale nella tutela penale dell’individuo, tralasciando uno dei passaggi più importanti nel contrasto alla violenza di genere.

D’altro canto, sembra paradossale che il nostro Parlamento (e il nostro Governo), per punire chi «vive nell’ombra e adombra la vita altrui», abbia scelto una formulazione piuttosto ombrosa.

Note

[1] È facilmente reperibile su internet un articolo del Sole 24 Ore del 23 novembre 2017 intitolato “I dati del Senato: femminicidio, stalking e molestie, numeri in crescita, ma aumentano denunce e condanne”.

[2] Su Penale contemporaneo è liberamente consultabile l’articolo “Il commiato dalla legalità: dall’anarchia legislativa al piroettismo giurisprudenziale” di Elio Lo Monte, professore Diritto penale presso l’Università degli Studi di Salerno, che traccia un’ottima analisi dei profili problematici della norma.

di Gianluca De Rosa

Autore

  • Laureato in giurisprudenza – mio malgrado –, al momento tirocinante presso un giudice penale del Tribunale di Milano. Giacché è giusto definirsi con le cose che si amano e null'altro, posso inanellare alcune passioni, tra cui Milano, i ristoranti etnici e tipici, la birra, la scrittura, la musica (addirittura strimpellata), nonché i videogiochi, i giochi di carte e tutte le altre attività che escludono a priori una qualche retribuzione o il fare bella figura.

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