Teologia negativa tra Plotino e lo Pseudo-Dionigi
Sia l’idea sia la raffigurazione di Dio sono spesso state accostate nelle diverse culture alla luce, così come alla luce sono associate molteplici manifestazioni della spiritualità; si pensi, ad esempio, alla “illuminazione divina”, ai fondi dorati delle icone religiose, alle aureole dei santi, al fuoco dello Spirito Santo, all’etimologia stessa della parola “Dio”, dalla radice ariana “diau” che, letteralmente, significa “splendere”.
Per quanto splendente, questa luce non è semplice da contemplare; non solo perché, nelle diverse tradizioni, la luce divina abbacina coloro che non sono degni di osservarla, per cui spesso l’uomo esce cieco dal confronto con Dio come Paolo sulla via di Damasco, ma soprattutto perché questa luce si nasconde dietro un velo di fitta tenebra.
Su questa nube oscura si concentra una corrente mistica medievale, che affonda le sue radici nella teologia negativa di Plotino e dei neoplatonici, e che considera il buio, le oscurità e le tenebre come il luogo privilegiato, tanto fisico quanto spirituale, per avvicinarsi alla luce divina.
Come accennato, l’idea della tenebra divina nasce in ambiente pagano, con la filosofia tardoantica e i maestri neoplatonici come Plotino, Porfirio, Proclo, Damascio e Vittorino. Il concetto cardine, filo conduttore delle diverse teologie filosofiche di questi pensatori, è che l’Uno/Dio sia il “totalmente altro” rispetto al mondo sia sensibile sia intellegibile e che non sia possibile afferrarlo tramite i sensi, le idee, i concetti della logica ordinaria.
L’Uno può essere descritto e “percepito” soltanto andando al di là della realtà, sia fisica sia intellettuale, attraverso la negazione. Da qui il termine “teologia negativa” per indicare una corrente teologica che cerca di afferrare Dio non attraverso definizioni, dimostrazioni logiche e concetti ma, al contrario, attraverso la negazione del reale, l’ottenebramento di tutto ciò che si conosce poiché gli oggetti, i pensieri, le idee non sono che ostacoli quando si tenta di comprendere una realtà per sua stessa natura ineffabile.
Come scrisse lo Pseudo-Dionigi Areopagita, misterioso pensatore tardoantico in bilico tra cristianesimo e paganesimo:
Colà semplici, assoluti, immutabili, stanno celati i misteri della Divinità, in Tenebra che ogni luce trascende, Tenebra di silenzio arcano; Tenebra che, per luce di trascendenza, in luogo tutto oscuro, folgora ciò che ogni evidenza trascende; Tenebra dove senso assolutamente non tocca, occhio assolutamente non vede; Tenebra che, in sua trascendenza, le menti, fatte prive di pupille, riempie di fulgori ogni bellezza trascendenti[1].
Ed è proprio attraverso la mediazione dello Pseudo-Dionigi che la mistica tenebra si insinuerà nella filosofia cristiana, espandendosi in diverse diramazioni, non limitandosi a essere una costruzione teorica astratta ma trasmutandosi in una vera e propria pratica di contemplazione. L’essenza oscura di Dio è qualcosa che si può vivere sulla propria pelle attraverso l’esperienza mistica, ma si tratta di intraprendere un sentiero buio e pericoloso, che inizia dall’abbandono di ogni forma di attaccamento e conoscenza, e finisce ugualmente con lo sradicamento di tutte le proprie certezze.
«Dio è la tenebra che si nasconde dopo ogni luce», dice una delle definizioni di Dio contenute nel Libro dei XXIV filosofi, testo anonimo del XII secolo, definizione che ben descrive il processo mistico a-razionale che conduce alla comunanza con il Dio della notte, il Dio la cui luce è occulta nelle tenebre.
Il primo contatto con questa “luminosa tenebra” si ha con la cosiddetta “notte oscura dell’anima”, di cui parla, ad esempio, Giovanni della Croce nella Salita al monte Carmelo, ma che è ricorrente nelle diverse tradizioni spirituali. Si tratta di uno stato di scoramento, il fondo del barile, la famosa selva oscura dantesca in cui, perso l’orientamento, ci si trova a vagare sperduti e spaventati.
La notte oscura dell’anima rivela il limite della vita umana, l’assurdità dell’esistenza terrena e la fugacità della vita. La rivelazione giunge improvvisa, spesso a causa di un evento traumatico. Si pensi, nel caso di Dante, alla morte di Beatrice, alla scoperta della vecchiaia, della malattia e della morte da parte di Siddharta, ma anche al miracolo delle stigmate di Francesco d’Assisi che, contrariamente a quanto si crede, si manifestò in un momento di profondo turbamento e scetticismo interiore; ma si pensi anche al Tarocco “La Torre” che raffigura una torre che crolla colpita da un fulmine e che, in alcune varianti, è chiamato proprio “La casa di Dio”. Vivendo questi eventi traumatici ci si sente spaesati, disorientati come, appunto, in una selva oscura. Eppure è proprio in questa tenebra senza confini che Dio si nasconde. Ci si sente naufragati in un punto limite, ma ci si può accorgere che il limite della mente e della condizione umana è Dio stesso, e la tenebra è la sua più profonda e misteriosa rivelazione. Come scrive l’Anonimo autore de La nube della non-conoscenza:
Per quanto grande possa essere la conoscenza e la comprensione di tutte le cose spirituali create, l’uomo non può mai giungere per mezzo dell’intelligenza alla conoscenza di una realtà spirituale non creata, quale è Dio stesso. Ma se riconosce il suo limite, allora sì che può giungere a una simile conoscenza. Quanto infatti limita l’intelligenza umana, non è altro che Dio, e lui solo. Ecco perché san Dionigi disse: La più perfetta conoscenza di Dio si ottiene con la non-conoscenza[2].
L’uomo deve fondersi con l’oscurità, divenire ombra nella tenebra. Affinché ciò accada, è durante il grande turbamento della notte oscura dell’anima che deve lasciarsi andare, svincolarsi dai beni terreni, che in parte ha già perduto, e sprofondare nell’abisso divino. Come sostiene Meister Eckhart, per accedere a tale dimensione divina l’uomo deve praticare l’assoluto distacco: distacco dalla volontà, dal desiderio, dai pensieri. Deve creare dentro di sé il vuoto poiché soltanto quando ci si sarà svuotati di sé si sarà colmati di Dio. Come scrive pseudo Dionigi-Areopagita:
Il voto che noi innalziamo, è di poter addivenire in questa Tenebra trascendente la luce; è di vedere per mezzo d’una vista fatta cieca, d’una conoscenza fatta nulla; proprio valendosi del non vedere e del non conoscere, di conoscere ciò che trascende visione e conoscenza. E in ciò, appunto, il vedere effettivamente e il conoscere[3].
Da qui le pratiche contemplative nate in seno alla filosofia cristiana, ma del tutto assimilabili alle pratiche meditative proprie della tradizione orientale, come il Buddhismo Zen o il Taoismo, con lo scopo di svuotare la mente da ogni immagine o pensiero, attraverso la realizzazione concreta e interiore della teologia negativa, che vede nell’oblio del mondo e dal mondo la strada più diretta verso la divinità. Scrive l’Anonimo autore de La nube della non-conoscenza, in un passo che pare descrivere gli esercizi di meditazione orientali:
Non metterti a pensare a te stesso più di quanto tu non debba fare con Dio, così da diventare una sola cosa con lui in spirito, senza dispersione né distinzione. Infatti, è lui il tuo essere, e in lui sei quel che sei: non solo perché egli è la causa e l’essere di tutte le cose, ma anche perché costituisce la causa e l’essere del tuo stesso essere[4].
A questo punto, immerso nella nera nube della non conoscenza, dissolta la propria identità soggettiva e contingente e raggiunta la piena identità con Dio, anche i propri turbamenti sono stati dissolti; la notte oscura dell’anima è stata superata.
Attraversata l’oscurità dell’Inferno, la nebbia del Purgatorio, ecco che si raggiunge la luce del Paradiso. La luce che è al di là di ogni luce, che l’Anonimo paragona alle folgori che si intravedono in un banco di nubi in tempesta e che Alberto Magno paragona, invece, alla visione di Mosé sul monte. Come scrive il filosofo renano nel breve trattato De adhaerendo Deo:
Quando cerchiamo di conoscere Dio per via di negazione, neghiamo in lui, in primo luogo, tutti i pensieri e le cose materiali e sensibili e, in secondo luogo, anche gli oggetti dell’intelletto e, infine, tutto ciò che è proprio delle creature. Secondo Dionigi, è in questo modo che arriviamo a Dio: è in questa oscurità in cui si dice che Dio abiti, che entrò in Mosé per giungere alla luce inaccessibile[5].
Note
[1] Pseudo-Dionigi Areopagita, Corpus Dionysiacum, tr. it. di Enrico Turolla, La vita felice, Milano 2014, p. 403.
[2] 2. Anonimo del XIV secolo, La nube della non-conoscenza, Ancora Edizioni, Milano 1997, pp. 246-247.
[3] Pseudo-Dionigi Areopagita, Corpus Dionysiacum, cit., p. 406.
[4] Anonimo del XIV secolo, La nube della non-conoscenza, cit., pp. 303-305.
[5] Alberto Magno, Accostarsi a Dio, tr. it. di Alessia Piana, Edizioni Appunti di Viaggio, Roma 2017, p. 68.