1º anniversario del Progetto-TAIGA.
3 febbraio 2018, Corte dei Miracoli, ore 21:00.
Una pista d’inchiostro sulle pareti, di calligrafie giapponesi se ne contano otto. In mezzo al pubblico quattro coppie yin-yang: otto attrici di nero vestite per recitare otto maestri del pensiero, e otto musicisti mondi di bianco per improvvisare con strumenti adatti, solo quando gli otto trigrammi dell’I Ching verranno lanciati. Primo trigramma: Tuono! Tocca a Nietzsche, all’uomo dinamite, e ai colpi della batteria. Seconda terna di lanci: Abisso! È il turno di Agostino, il profondo, sulle note del Sax baritono. È così che la verità “astratta” del concept jazz di Oliver Nelson, che impostava il pattern sonoro (The Blues and the Abstract Truth), si è trasformata in verità “estratta” (extr-ACT Truth), per lasciare all’azione casuale il compito di scegliere il prossimo tema della rivista. Ed ecco il responso… esagramma numero 40: La liberazione!
Prima di dar voce alle nostre rubriche, ci soffermeremo per poco sulle dottrine religiose in seno al cuore dell’Asia e sulle loro diverse proposte soteriologiche. Partiamo dal concetto di mokṣa (मोक्ष) che pervade non solo il culto induista, ma anche dei Jaina e dei Sikh. Dall’etimo muc che in sanscrito sta per “rilasciare”, o “lasciar andare”, diventa sinonimo di “liberazione” e quindi “salvezza”. La mokṣa è uno dei quattro scopi della vita, dopo il piacere (kāma), la prosperità (artha) e la ricerca di un principio morale (dharma), che culmina con la liberazione dal ciclo di rinascite (saṃsāra). Con il progressivo svuotamento della funzione mediatrice del brahmano e l’aumento teista di un rapporto diretto tra fedele e divino tramite la “via della devozione” (bhakti marga), la divinità acquisisce una spiccata funzione salvifica, come nella leggenda puranica di Gajendra mokṣa, in cui Vishnu interviene per liberare l’elefante Gajendra da Makara, il mostro coccodrillo. La stessa estensione del termine svarga, il Paradiso di Indra, volgarizzato per indicare un generico regno dell’aldilà stracolmo di ricompense, accessibile non più mediante sacrificio rituale ma per intercessione divina, conferì a una forma più tardiva del credo un aspetto messianico, poi ripreso in sviluppi più distanti dal buddhismo come la scuola Jōdoshū della Terra Pura, in cui si attende l’epifania del Buddha Amida per transitare nel mitico Paradiso Occidentale.
Pensando al testo dell’I Ching, tuttavia, non bisogna dimenticare che nella coerente successione degli esagrammi il simbolo della Liberazione fa seguito a quello dell’Impedimento, l’esagramma n. 39. Anziché una direzione che dal roteare dinamico del saṃsāra sfocia nella quiete della mokṣa, abbiamo piuttosto un movimento che parte dalla stasi obbligata per colpa di un ostacolo fino alla liberazione come rimessa in circolo. In epoca recente, Krishnamurti disse che nessun sentiero può condurre alla verità, poiché essa non è statica, ma viva, in movimento. Nell’evoluzione buddhista del concetto di mokṣa in quello di nirvāṇa ci sarà addirittura chi, come il maestro Nagarjuna, affermerà non esservi alcuna differenza fra saṃsāra e nirvāṇa e che quest’ultimo vada ricercato all’interno del traffico degli enti ciclicamente rinnovantisi. Cruciale in questo fu il passaggio dall’ottica del buddhismo Hīnayāna a quello Mahāyāna, dal “piccolo” al “grande veicolo”, quando al nirvāṇa “senza residuo” in cui l’arhat, l’illuminato, si libera completamente abbandonando questo mondo, si preferì l’ideale collettivo del nirvāṇa “con residuo”, in cui il bodhisattva potenzialmente è già libero ma ancora in cammino e decide di tornare per restare nell’aldiquà ad aiutare gli altri esseri a nobilitarsi. Fa specie quindi che al simbolo dell’I Ching della Liberazione, in cui si legge che «è opportuno ritornare il più presto possibile alle condizioni abituali», faccia seguito nella nostra estrazione “causale” proprio l’esagramma n. 24 dal titolo: Il ritorno. Già nel concetto classico di jivanmukhta, della dottrina advaita, il discepolo acquisisce la “liberazione” (mukhta, sempre dalla radice muc) ma sceglie di rimanere in vita nel possesso della propria anima (jiva), e sempre Krishnamurti dirà: liberazione «non significa che io voglia morire, voglio vivere in questa terra meravigliosa, ricca e bellissima».
Ciononostante, nell’invito dell’I Ching: «Se vi sono da esaurire ancora dei residui è opportuno farlo il più presto possibile», si situa un’ulteriore e apparente controsenso, non appena si interpreta la liberazione come «ritornare alle regole comuni della vita». Prima di aggrottare la fronte, notiamo un’eco di questa mentalità in molti degli scritti più antichi del patrimonio religioso. Nell’Avestā, ad esempio, il termine ayah – traducibile come “metallo fuso” e, fuor di metafora, come apocatastasi e proscioglimento liberatorio in vista del giudizio finale – viene presentato nella trentesima yasna come una “Grande Restaurazione” operata dal Saošyant, cioè dal messia “soccorritore”, allo scopo di ritornare all’ordine precostituito. Si profila un secondo accesso alla nozione originaria di rivoluzione in senso, potremmo dire oggi, del tutto astronomico, ossia ciclico.
A questo punto giochiamo un po’ anche noi con l’aneddoto dell’astrofisico Fritjof Capra, autore del celebre Il Tao della fisica, che intervistato qualche anno fa dalla nostra rivista raccontò del suo tête-à-tête con Krishnamurti, ottenuto grazie alla tenacia necessaria per superare il velo di impenetrabilità del guru indiano. Questi concesse a Capra una sola domanda, ed essa fu: come faccio a conciliare il mio lavoro di fisico e la mia passione per la scienza con il principio di una “libertà dal conosciuto” così come Krishnamurti indicava nel proprio insegnamento? Momento di riflessione, lungo respiro e risposta lapidaria del guru: «Lei, per prima cosa, deve essere libero!» Il monito per una libertà dalla conoscenza rivolto al famelico approccio post-moderno reinterpreta l’avversione del buddhismo classico per l’erudizione. Ricordiamo che fu negato al migliore fra i discepoli del Buddha, Ananda, di subentrare al maestro proprio perché giudicato troppo dotto. Ma allo stesso tempo non viene dimenticata l’impostazione basilare che rintraccia nella causa primaria del “dolore” (duḥkha) proprio l’“ignoranza” (avidyā), all’interno di un autentico intellettualismo etico. Oltre che dal pericolo dei legami, occorre perciò guardarsi anche dal mitizzare un ideale astratto di liberazione, perché entrambi sono «spauracchi per chi ha paura», come si legge nel testo tantrico del Vijñanabhairava, in cui il concetto liberatorio di “dissoluzione” (laya) coincide con quello di “assorbimento” inteso come rientro della verità nel proprio registro normativo.
È ciò che intende, tarate le dovute discrasie, la cultura confuciana quale culla dell’interpretazione successiva ma poi classica dei capitoli dell’I Ching, la quale, estranea com’era a una sfera metafisica, non conobbe mai una forma di liberazione nei termini di ascesi, ma piuttosto come conformazione alla legalità. E, se vogliamo ricalibrare di nuovo il nostro confronto, aggiungiamo che persino la forma estremo-orientale di liberazione, cioè quella del satori propria dello Zen, imparentata al concetto di wu della dottrina cinese Ch’an, parlerà di un’illuminazione che non è subitanea soltanto nella sua fase d’escrescenza, ma spesso anche nella conclusione del proprio slancio. Per diventare Patriarchi, a molti maestri Zen fu sufficiente aver vissuto appena pochi istanti di satori, sbirciando l’assoluto per un frangente dalla fenditura della quotidianità. Il più grande interprete moderno dello Zen, D.T. Suzuki, dirà che il satori è un miracolo che si verifica ogni giorno, cioè pur sempre un’eccezione, in omaggio alla concezione moderna della libertà, che però si manifesta secondo una via non per forza anticonformista.
Non stupisce allora che proprio all’atto di estrarre il simbolo della liberazione siamo stati visitati da una nascita imminente, poiché una delle nostre Tigri sta per diventare mamma! La liberazione alla vita del nascituro segna non già l’uscita ma l’ingresso nel saṃsāra ed equivale a una sua inconscia accettazione. Fa bene quindi l’I Ching, a proposito di rottura delle acque, a servirsi degli elementi di tuono e acqua per costruire la metafora di una tempesta che, sfogata la sua furia, ridona serenità al paesaggio.
Fu il grande yamatologo Lafcadio Hearn fra i primi a esportare i cardini del buddhismo fino al pubblico occidentale, interpretando la liberazione del nirvāṇa come questione di metodo, cioè regola, cui non compete affatto una modifica sostanziale della realtà. Egli disse:
Sul mare spirituale della nascita e della morte, così come la tempesta d’un mare è moto d’ondulazione e non di traslazione, così com’è la forma dell’onda solo, non l’onda stessa che viaggia, così nel transito delle vite v’è solamente l’origine e lo svanire di forme, forme mentali, forme materiali. L’insondabile realtà non passa.
di Federico Filippo Fagotto
Per le calligrafie si ringrazia il Maestro Bruno Riva dell’Associazione Shodo.it