Vittorio Sereni e la libertà poetica
Nonostante si viva in una condizione di ipertrofia poetica, in cui il verso ormai si è slegato dal ritmo, dalla metrica, dai voti alle più varie divinità, non si può dire che la poesia sia libera. Solo a uno sguardo superficiale parrebbe libera. Del resto, spesso nell’assenza di formalità è facile trovare superficialità. Non che il metro sia necessariamente strumento di bellezza: se mancano le basi, le radici del verso, esso risulta un’erbaccia mal cresciuta. Da qui la necessità di maestri, che possano rendere davvero la poesia liberazione.
Vittorio Sereni in questo senso fu un grande maestro. Pubblicò solo quattro opere, eppure si può respirare in lui una poetica che ha fatto scuola. In particolare, leggendo Stella variabile, pubblicata nel 1981, possiamo ritrovare un esempio di come la poesia si sia liberata, dopo un percorso di esercizio nella scrittura. Sereni fu un poeta capace di osservare nelle opere precedenti anche i più grandi drammi con occhio non solo attento, ma anche distaccato; nonché di descrivere un evento come la sua prigionia in Algeria, durante la seconda guerra mondiale, con una lucidità impressionante. In Stella variabile, non a caso la sua ultima opera («e questi che ti sorridono amici / questa volta sicuramente / stai morendo lo sanno e perciò / ti sorridono.»), abbiamo il risultato di anni di riflessione poetica sulla realtà e sulla poesia stessa, sul suo linguaggio. Lo si vede bene dallo sperimentalismo attento, equilibrato, in cui la punteggiatura, nonostante non sia regolare, si ritrova in un ritmo perfetto, un suono che raccoglie non solo lo spirito della coerenza testuale, ma anche il tentativo di assumere in se stesso un significato.
Quando si ricerca un linguaggio adeguato, si crea anche una nuova poetica: il pensiero si fa parola, subisce un processo di scatenamento necessario per acquisire un nuovo significato. Sereni scrive in Addio Lugano bella che dovrà «cambiare geografie e topografie». Con queste parole egli intende alla lettera un fine che è proprio di questa opera, perché, a differenza dell’ubriacatura della poesia ipercolta, egli cerca una risposta adeguata al peso di una tradizione in cui la poesia è sempre stata proprietà di tutti, una poesia insomma adeguata ai tempi: da qui il cambio di geografie e topografie. Tant’è che Sereni, sempre in Addio Lugano bella, prosegue con questi versi:
Ma io, mia signora, non mi appello al candore
della neve
alla sua pace di selva
conclusiva
o al tepore che sottende di ermellini
legni bracieri e cere dove splendono virtù
altrove dilaniate fino al nonsenso
ma vizze qui, per poco che le guardi,
come bandiere flosce.
Sono per questa – notturna, immaginosa – neve di
marzo
plurisensa
Sereni rintraccia il verso in un contesto ben connotato: non cerca il nonsenso, ma il plurisenso, ossia contrappone all’eccesso di una poesia sperimentale che riduce al nulla il significato imponendo il significante come via di liberazione del poetico, una poesia vizza come bandiere flosce, notturna, immaginosa, una poesia che crea immagini aderenti al reale. È un Sereni «ululante di estati» che «scompone la notte e ricompone / laminandola di peltri acciai leggeri argenti».
Da questi estratti notiamo da una parte una punteggiatura quasi assente, il mantenersi comunque forte dell’adesione a un senso musicale, un ritmo automatico, dettato dagli a capo. Dall’altra un linguaggio semplice, con pochi lessemi complessi che, quando presenti, sono arricchiti di senso dal contesto in cui si animano. Una poesia plurisensa nella misura in cui polifonica e sinestetica: coinvolge e stravolge tutti i sensi, dall’udito fino al potere immaginifico delle parole, che evocano sinfonie di idee, visioni chiare, precise, pur mantenendo la vaghezza necessaria al poetico, che spesso, nei suoi più grandi esempi, si avvicina alla trattazione dell’indefinito. Nel contesto in cui si anima questo testo, Sereni cerca di dare una risposta alternativa a una poesia che si è vista via via scalzare dal predominio della prosa e ha reagito chiudendosi in un linguaggio arduo, sperimentale all’eccesso, allontanando così il pubblico di lettori non scrittori e diventando una poesia vieppiù fruita da lettori scrittori, quindi una poesia tecnica.
«È opportuno avanzare fin dove è necessario», così l’I Ching. Liberazione è ritorno alle usanze di prima, alla normalità, non eccesso verso qualcosa di nuovo che dilavi una tensione imperante escludendo da sé tutto ciò che precedeva. Per meglio intenderci: spesso, in diversi interventi di alcuni poeti contemporanei, si sente dire che la poesia è sempre stata elitaria, che è sempre stata letta da pochi e prodotta da pochi. Storicamente questo dato è falso, profondamente falso: è una censura operata per giustificare una tendenza di parte della poesia contemporanea all’isolamento (basti pensare alla funzione della poesia come mezzo per il potere di trasmettere messaggi fondamentali a tutta la popolazione o alle numerose testimonianze di analfabeti che mandavano a memoria e cantavano diverse poesie). Si crede poi che la poesia sia più libera di dire quello che vuole se è isolata. Anche qui si sbaglia: la libertà, la liberazione della poesia, non sta nella sicurezza dell’isolamento, ma nell’essere come il poeta in nero di Sereni, «ritto sullo sgabello» che «inalbera / un cartello con la scritta: […] / Sono fiero d’essere un poeta», e alla domanda: «Ma perché tanto nero? / gli domando con gli occhi» risponde che veste «il lutto per voi / da dietro vetri neri / con gli occhi mi risponde». Il poeta è cioè uno sguardo, un osservatore che condivide il lutto dell’umanità e lo veste per tutti, perché egli è portavoce di ogni dolore, di ogni passione, di ogni trapasso. In questa breve poesia sta l’idea di una poesia fatta di condivisione di realtà, di messa insieme di uno sguardo sulla sofferenza che ci contraddistingue e vivifica. Il poeta insegna insomma il sentimento, il sentimento anche – e soprattutto – estremo. Questo il ruolo che deve riconfermare e che s’è assunto sin dall’inizio, quando il poeta era viandante, un misto tra l’indovino e il pazzo. In quest’ambiguità raffigurata perfettamente, sta un’idea di poesia libera, perché da una parte legata alla grande tradizione poetica, dall’altra capace di innovare e dilavare lo stato di tensione tipico di ogni epoca di passaggio. Parliamo degli anni Ottanta. Potete ben immaginare quanti profondi cambiamenti siano avvenuti rispetto agli anni precedenti.
All’interno di quest’opera si trova poi un libro nel libro, che è la III sezione, in cui c’è un poemetto, Un posto di vacanza, dove emerge chiaramente un linguaggio potentissimo, in cui elementi arcaici si alternano ad altri di linguaggio colloquiale. Ma su tutto emerge un’idea di poetica matura e piena, in cui si vede chiaramente l’afflato osservativo di Sereni.
Amò, semmai servissero al disegno,
quei transitanti un attimo come persone vive
e intanto
sull’omissione il mancamento il vuoto che si pose
tra i dileguati e la sogguardante la
farfugliante animula lì
crebbe il mare, si smerigliò il cristallo
di poco prima, si frantumò
e un vetro in corsa di là dalla deriva
raggiò sopravento l’ultimo enigma
estivo.
Il poeta cerca quindi con lo sguardo non solo la presenza – una modalità di persona, di vita – ma in un tempo imprecisato e contemporaneo guarda anche all’omissione, a quello che manca, il vuoto, con un passaggio associativo a cascata che va dai passanti all’ambiente, come fosse un tutt’uno, com’è in effetti un tutt’uno. Questa è liberazione del verso, perché riporta nell’essenza del poetico un tracciato di senso sempre più forte, sempre più chiaro: il linguaggio mantiene una coerenza stretta, non cade nell’eccesso di paralogismi estetizzanti, ma si ferma dov’è necessario fermarsi, ossia nell’idea che il mondo attorno è un insieme coerente nell’incoerenza.
In tutto questo assente sta l’enigma, che viene da ainìssomai, che significa alla lettera parlare oscuramente, a sua volta derivante da ainos, raccontare. Ossia la trasmissione di un racconto che ha in sé la dimensione del mito, un racconto che col tempo si fa oscuro. Solo che è un ultimo enigma estivo, un enigma riflesso («cristallo… vetro»), quindi in definitiva un racconto, un trapasso e al contempo uno specchio della nostra natura.
Sereni si è così confrontato in questa sua ultima opera col suono gutturale della morte. E ha ristrutturato una topografia del poetico a partire da strumenti semplici, necessari per essere compreso appieno. In questo sta la liberazione: nel ritorno dall’incompreso alla comprensione piena della natura umana. Perché questo è il compito della poesia: discendere negli abissi dell’inconscio, del nulla, dell’incomprensibile, e risalire a galla, capace di ridire parola per parola tutto quello che ci unisce come specie e ci fa umani. Un viatico per l’umanità in definitiva.