In Paolo Pitorri il verso non è un’arrampicata impossibile, né un tralcio di parole insufflate in un contesto di nulla. In Pitorri troviamo un esito di qualcosa, una poesia fatta di piccoli gesti, quotidiane inesperienze, suppellettili, città. Tanta parte poi l’ha un ritmo incalzante, che traccia un percorso nel percorso; di pari passo le immagini, potenti, che si manifestano chiare a chi legge, trasponendo in ricette di senso una poeticità molto fisica, ricca, imprecisa a tratti, perché tale è la realtà. Quella di Pitorri, insomma, è una lirica che tutto si può permettere. Persino di sbagliare. E questo errore/errare si ripercuote in un linguaggio ricco di consonanti liquide, scelta legata agli aspetti più intimi di una natura poetica immediata, che si scioglie e adatta e accostuma agli spazi in cui insorge, una poesia quindi mobile, in definitiva caratterizzata da un sincerità rara a trovarsi in un poeta. Ed è forse proprio questa sincerità a dar spessore alle poesie di Pitorri che qui pubblichiamo.
Victor Attilio Campagna
Neon
Hanno osservato contro luce il mio sangue
ho regalato le mie nudità a donne vestite di bianco.
Tra poco devono tagliarmi, togliere i pezzi, ricucire.
Col volto cianotico fisso mia madre soffrendo
voglio rientrare in lei per non dover più vagire.
Un passo indietro per non dover morire.
Ventidue anni alle spalle per non dover nascere – soffrire.
Tornare in lei dove ero l’unico corpo piccolo
In una sacca amniotica: un universo nero.
Ora sto supino a riflettere il neon.
Adesso dentro di me un paese si dilata,
si espande nel mio corpo – delirando penso:
sono stufo di Londra. Ma arrivano i guanti in lattice.
La vestita di bianco mi regala dieci secondi:
un’anestesia, occhi di cataratta: dimentico come respirare.
Un taglio, uno scoppio, un maroso, un tesauro di emorragie.
Mi risucchia la schiena il nadir della barella.
Mia madre mi parla, mi stringe la mano, è nuovamente la prima volta.
Mi ha detto che sono nati quattro gatti in questa notte “bella”.
È la seconda volta che esco con lei da una stanza di ospedale.
***
UNA DONNA OFFUSCATA A.
Una donna offesa
da aghi di luce.
Spazzole di cipresso
nella pupilla –
la grattano e la puliscono.
Brulicano gli occhi,
bruciano, bruciati dal soffitto.
Nevrotiche le iridi ridono
affogando in un bianco rovente.
I terrazzi vomitano fiori
di una tenerezza mai arrivata –
una frusta che percuote e scaccia l’anima.
Così la mattina, madre del sonno,
è un silenzio da sgrullare dai capelli.
La candida luce punge
le coste spezzate, speziate dagli acari,
lenzuola di polvere.
Una maternità, prossima come il risveglio.
***
Vincesti il mostro della terra
e la pianura di iris dal sorriso malato.
Il tumore si schiuse
in un polmone verde.
Conficcasti la bandiera della resa
in quel prato
sotto gli occhi di Dio
e di tutti gli insipidi Santi.
Chiudesti il pugno e le ciglia
così l’uomo e la morte
diedero il la per danzare con la polvere.
***
È fiato perduto
Sono anni che non ti specchi per intero.
Sei andato comunque a quella festa.
Hai mangiato le ultime briciole
non ti hanno sfamato.
Hai bevuto e vomitato.
Sei in casa ora:
la tua scrivania è un banco di nebbia
una gomma cocente che affoga le mani.
Tuttavia voglio scriverti una lettera:
Quando gli trafori gli occhi
loro incontrano la notte e il ramo nel lago.
Nel rimbalzo vedi una mano uscire dall’acqua.
È forse la loro? Di cosa hai bisogno?
Tu sei l’esistenza che cerca la resa del sole.
***
Alla nostra nuova assente:
Una stasi in controluce – un sogno breve.
Una luce verde acqua che secca le ombre,
uno sciame di respiri che smuove un vuoto.
Le tinte dei maglioni che si perdono
in un’intesa che pare essere vera – indaco.
Vedo la penombra nascosta dietro la malinconia,
dolce come la fresca maiolica della nostalgia.
La prima casella di noi è già caduta.
Su questo letto c’è una dolcezza – la nostra prima figlia.
Ma il tuo primo figlio è un Leone
e sbraita il suo amore nelle macchie in cui corri.
Mi ha mostrato i denti da latte ruggendomi contro
come te nella stanza che abiti in silenzio.
Un sogno breve, indaco, la nostra prima figlia:
la nostra nuvola assente.
***
Pensavi al mio morale,
lo vedevi come una giacca buttata a terra.
Era blu e con le toppe marroni ai gomiti.
La prendevi e sistemavi su una stampella.
Ambivi ad essere la mia ideale gruccia?
Su quel letto volevi aprirti in due
diventare bidimensionale e aderire
a tutta la superficie del mio corpo.
Per ridimensionare la tristezza di quel momento
bevemmo e ribevemmo sulla Senna.
Ricordi il topo bianco e la cornacchia?
Galleggiavano morti sotto le nostre suole,
tra loro riposava la distanza di una mano.
La corrente li avvicinava a noi.
Con occhi incantati come la morte dicesti:
che paradiso di probabilità è il Pont Neuf…