Spunti di riflessione attorno alla tavola e ai suoi molteplici significati
L’Italia è ormai da diverso tempo terra d’approdo. Che si tratti dei circa 5 milioni[1] di cittadini stranieri residenti o dei turisti internazionali[2], gli ultimi vent’anni hanno visto un intensificarsi dei rapporti con l’Altro, in un momento storico e sociale inquadrabile nel più generale contesto della globalizzazione. Nel frattempo, il cibo è diventato un tema di grande rilevanza sia per la comunità scientifica che per molti altri attori, come gli esperti di marketing territoriale. Nutrirsi rappresenta un gesto che va ben al di là del semplice appagamento di una necessità fisica e racchiude al suo interno importanti significati simbolici e relazionali[3]. L’obiettivo di questo contributo è quello di delineare sinteticamente come e con quale frequenza nel corso della storia, nei momenti di contatto tra culture, le pratiche alimentari abbiano rappresentato un elemento di connessione, un tassello fondamentale per la conoscenza dell’Altro e, nei casi più fortunati, per la sua comprensione e accettazione.
Prima ancora che ponte tra le culture, le pratiche relative alla produzione, trasformazione e assimilazione del cibo sono certamente parte costituente di ognuna di tali culture. Queste infatti fanno proprio quello che Piero Camporesi definisce il rapporto terra-territorio-colture[4] declinandolo, a seconda delle scelte compiute dagli individui e dalle società che essi compongono, in relazione alle risorse ambientali a disposizione. L’ambiente è stato, nella storia remota dell’uomo, un fattore fortemente vincolante che tuttavia non ha mai imposto una totale passività[5]. Il bagaglio di risorse naturali è stato inoltre integrato in seguito al contatto con nuove popolazioni e attraverso l’istituzione di rapporti commerciali. L’unione delle risorse accessibili all’interno di un determinato territorio con particolari tecniche di lavorazione ha consentito poi lo sviluppo di rinomate produzioni locali. Questo è quanto avvenne ad esempio per l’arte pasticcera sviluppatasi a Vienna grazie all’intrecciarsi di diverse condizioni favorevoli: la disponibilità in loco di prodotti come il burro e la panna, l’accesso allo zucchero grazie ai ricchi scambi commerciali e lo sviluppo tecnico dei mulini industriali[6]. Il cibo quindi, così come il gusto[7], è parte del patrimonio culturale delle società umane. Costruendo un’analogia con il linguaggio e alla luce delle considerazioni sopra riportate, possiamo inoltre sostenere che il cibo è prodotto, ma anche condizione della cultura[8].
Il cibo ha giocato e gioca ancora oggi un ruolo mediatico fondamentale negli incontri, e in alcuni casi negli scontri, fra culture. Gli esempi che si potrebbero fare sono numerosissimi, relativi ad aree geografiche fra loro molto diverse e a epoche fra loro molto lontane. Nonostante questo tutti risultano idonei a dimostrare che «più ancora della parola, il cibo si presta a mediare fra culture diverse, aprendo i sistemi di cucina a ogni sorta di invenzione, incroci e contaminazioni»[9]. Questo è quanto testimoniano, ad esempio, i risultati seguiti all’incontro tra la cultura romana e quella germanica nel corso dell’Alto Medioevo, che permise la nascita di una cultura alimentare basata sul grano, la vite e l’olivo, ma anche sui prodotti derivanti dalla caccia, dalla pastorizia e dalla raccolta[10]. Un altro evento storico ha successivamente rimesso in discussione il nostro sistema alimentare: l’incontro con la cultura gastronomica araba, che con gli agrumi e la canna da zucchero pose fine al dominio dell’aceto e del miele, soprattutto là dove si affermò una dominazione diretta degli arabi, come in Sicilia e in Andalusia[11].
La capacità pervasiva delle pratiche alimentari non si è esaurita fino a oggi. Esse infatti sono state in grado di incidere su uno dei più popolari simboli della globalizzazione, McDonald’s, che per conquistare una fetta di mercato in India si è trovato costretto a confrontarsi con pratiche alimentati come il vegetarianismo. Il primo fast food vegetariano della catena è stato infatti aperto nel 2012 nella città sacra di Amristar, nello stato federale del Punjab[12]. Il cibo e i suoi elementi connotanti posso essere poi utilizzati per dar vita a strategie tutt’altro che dialoganti, all’interno delle quali è possibile riconoscere chiaramente il fortissimo legame tra le comunità coinvolte e i relativi simboli culinari. Esemplificativo in tal senso è lo slogan coniato dalla Lega Nord: sì alla polenta, no al cuscus.
Il consumo di polenta ci porta verso la conclusione. Questa infatti è, sia storicamente che nella percezione comune, un piatto che connota fortemente la cultura veneta. Luigi Messedaglia e, più recentemente, Roberto Mantelli sono solo due dei numerosi studiosi che hanno analizzato la storia dell’introduzione e del consumo del mais nel nostro paese e in Veneto, a partire dalla scoperta dell’isola di Hispaniola da parte di Cristoforo Colombo nell’ottobre del 1492. La ripubblicazione del volume La gloria del mais e altri scritti sull’alimentazione veneta nella collana Cultura popolare veneta, voluta dalla Regione Veneto nel 2008, conferma questo legame. Questa scelta si situa in un contesto all’interno del quale gli usi alimentari generano sempre più ambiti di scelta e di produzione di rappresentazioni consapevoli, al centro delle quali troviamo sempre più frequentemente l’appartenenza locale, l’interesse per la memoria e per i saperi artigianali[13]. Si tratta di ambiti di scelta che a volte, al di fuori del ristretto contesto accademico, si limitano a fotografare ciò che sta in superficie, dimenticando, o occultando intenzionalmente, i complessi processi di trasformazione che hanno avuto luogo in epoche storiche più o meno remote così come le popolazioni e le culture coinvolte.
Quello che non dobbiamo dimenticare, soprattutto in una fase storica caratterizzata da contatti sempre più frequenti e intensi, è la particolare dinamicità delle pratiche culturali connesse all’alimentazione e al ruolo decisivo che queste possono giocare non solo per valorizzare determinate realtà territoriali, ma anche per porsi in una prospettiva dialogante nei confronti dell’Altro.
Note
[1] Gli stranieri residenti in Italia al 1° gennaio 2016 erano 5.026.153, di cui 3.931.133 cittadini non comunitari. Cfr. http://www.istat.it/.
[2] Nel 2015 l’Organizzazione Mondiale del Turismo (OMT) ha registrato 1.186 miliardi di arrivi internazionali, con un incremento del 4,6% rispetto al 2014. Cfr. http://www.enit.it/.
[3] Cfr. F. Neresini, V. Rettore (a cura di), Cibo, cultura, identità, Carocci, Roma 2008, p. 24.
[4] P. Camporesi, La terra e la luna: alimentazione folclore società, Il Saggiatore, Milano, pp. 4-5.
[5] Massimo Montanari afferma infatti che l’uomo è stato capace di produrre il proprio cibo «selezionando le risorse disponibili in maniera più attiva nella definizione degli equilibri ambientali». Cfr. M. Montanari, Il cibo come cultura, Laterza, Bari 2012, p. 73.
[6] Cfr. P. Claval, La geografia culturale, Istituto Geografico de Agostini, Novara 2002, p. 190.
[7] Cfr. M. Montanari, Il cibo come cultura, cit., p. 73.
[8] L’analogia tra cibo e linguaggio è stata analizzata da importanti studiosi come Claude Lévi-Strauss, ideatore del concetto di “gustema” a partire dal termine “fonema”. Cfr. C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Milano 1966, p. 104.
[9] M. Montanari, Il cibo come cultura, cit., p. 154.
[10] A. Capatti, M. Montanari, La cucina italiana. Storia di una cultura, Laterza, Bari 1999, p. 150.
[11] Ivi, p. 106.
[12] Cfr. http://www.bbc.com/news/business-19479013.
[13] F. Neresi, V. Rettore, Cibo, cultura, identità, cit., p. 45.
di Valentina Capocefalo
La rubrica di geografia è resa possibile dalla collaborazione con Egea Milano