La dialettica master & servant di Marco Ferreri

L'udienza Marco Ferreri

Fotogramma da L’udienza di Marco Ferreri

«Se vai dalle donne porta il bastone!»
(Friedrich Nietzsche)

«Possiamo essere liberi solo se tutti lo sono.»
«L’uomo che si isola rinuncia al suo destino, si disinteressa del progresso morale. Parlando in termini morali, pensare solo a sé è la stessa cosa che non pensarci affatto, perché il fiore assoluto dell’individuo non è dentro di lui; è nell’umanità intera. Non si adempie il dovere, come spesso si è portati a credere e come ci si vanta di fare, confidandosi tra le vette dell’astrazione e della speculazione pura, vivendo una vita da anacoreta; non vi si adempie con i sogni ma con gli atti, atti compiuti nella società e per essa.»
(Georg Wilhelm Friedrich Hegel)

Nel 1997 moriva un grande maestro del cinema italiano, un intellettuale poco organico, un maverick dell’immaginario che ha sempre messo d’accordo sia gran parte del pubblico sia gran parte della critica all’uscita di ogni suo film, disgustando o facendo arrabbiare entrambi: Marco Ferreri.

Date queste premesse non dovremmo stupirci, pertanto, nel notare che Ferreri appaia attualmente piuttosto discosto all’attenzione del panorama storico-critico del Bel Paese. Tanto che, nel 2017, alla ventennale ricorrenza della sua morte, le celebrazioni sulla sua opera si sono contate sulle dita d’una mano. Si può dire, per legarci al tema dell’I-Ching (la Diminuzione esagramma nr. 41), che è piuttosto diminuito nella memoria e nell’immaginario collettivo italiano[1].

Eppure a scorrere la filmografia di Ferreri si trovano dei veri capolavori della cinematografia. Basterebbe citarne tre: La donna scimmia, La grande abbuffata, Dillinger è morto. Questa diminuzione dall’orizzonte critico e anche dalla memoria è inoltre ancora più strana se si pensa che i suoi film restano di scottante attualità. Uno dei temi principali dei film di Ferreri, infatti, riguarda il rapporto uomo-donna, che egli declina, specie alla fine della sua carriera, in direzione di un vigoroso femminismo. In un’epoca che ha coniato un neologismo come la parola femminicidio, insomma, non si può affatto dire che l’argomento «maschi contro femmine» sia superato e i film di Ferreri hanno molto da dire sull’argomento.

Non è certo però cantare l’ideologia femminista quel che interessa al regista. Non s’inganni chi cercherà in lui un appoggio a tesi politiche. Piuttosto il fascino dei film di Ferreri sta nell’idea che le relazioni tra uomo e donna (come tra uomo e uomo o donna e donna) siano inevitabilmente declinate secondo la logica e le dinamiche dei rapporti di forza, nel quale un genere, di norma ma non necessariamente quello maschile, s’impone sull’altro. Alla fine Ferreri sembra volerci dire che il vero sesso dominante si rivelerà quello femminile (Ciao, maschio, il futuro è donna, La carne). Tuttavia questa profezia andrebbe guardata con sospetto. Non tanto perché possa rivelarsi sbagliata, quanto perché l’aspetto interessante dei film di Ferreri è che da un mondo regolato dalla logica di «estensione del dominio e della lotta» ad uscire vincitore non necessariamente è colui che appare il vincitore (o vincitrice).

Prendiamo ad esempio il film Una storia moderna – L’ape regina, ostacolato dalla censura democristiana dell’epoca (è il 1963). Il film narra di un uomo che viene usato, consunto e abbandonato come un fuco morente dall’insaziabile voglia di procreazione della moglie. Non solo il plot, ben in anticipo sul ’68, ci presenta l’immagine quasi inedita di una donna tutt’altro che sottomessa, anzi dominatrice, seppure tra le mura domestiche, ma fa sì che a uscirne diminuita, se non proprio sminuita, sia la figura femminile in sé. Almeno a uscirne sconfitta è la caricaturale rappresentazione ideologica della donna come brava moglie e madre, tanto esaltata dalla retorica cattolica e democristiana e che ha funzionato da modello pedagogico per intere generazioni di bambine e ragazze. Come a dire che tanto meglio è interpretato il ruolo della donna nel sistema patriarcale, tanto più cioè la femmina è femmina, tanto meno essa lo sarà realmente (almeno per come sembra essere inteso il ruolo femminile dall’ideologia patriarcale). Siamo, insomma, dalle parti della contraddizione hegeliana servo-padrone, dove chi è diminuito e sottomesso s’affranca, chi è libero e sta in alto diventa dipendente e vincolato o, per restare al sacro femminile, dove Venere è Cibele e Maria è Salomé.

In realtà il punto messo a fuoco nei film di Ferreri non consiste tanto nel ruolo del maschio (o nel ruolo della femmina) in un determinato quadro politico o storico, quanto nel meccanismo sociale che porta due generi a fronteggiarsi fino a far diminuire la libertà di entrambi. Anzi è, ancor di più, la libertà di coloro che si credono più liberi degli altri (perché socialmente vincenti) quel che viene messo alla berlina. Coloro infatti che meglio aderiscono a un modello sociale e risultano ben congrui al loro ruolo, ben integrati nel sistema, secondo Ferreri in qualche modo ne escono diminuiti sotto il profilo umano. Più ci atteniamo al ruolo sociale o a quello che crediamo debba essere il nostro ruolo sociale, meno siamo e restiamo esseri capaci di amare e quindi liberi; dei veri esseri umani insomma. Questo sembra volerci dire Ferreri. Si può obiettare, d’altro canto, che tutto ciò può apparire come un’assurdità, in quanto l’uomo è, come aveva già asserito Aristotele e come poi ha ribadito Marx, un animale eminentemente sociale. Il cinema di Ferreri, tuttavia, sembra proprio voler mettere in scena storie nelle quali mostrare che la vera assurdità è quella d’un pensiero che creda che l’Uomo sia tanto più libero quanto più si rende socievole. In un certo senso si potrebbe dire che Ferreri è un regista hegeliano e anti-hegeliano al tempo stesso. Hegeliano perché da un lato è consapevole che non ci si può liberare se non tutti assieme, anti-hegeliano perché è la stessa società a creare le premesse per la schiavitù d’ognuno.

La donna scimmia di Marco Ferreri

Fotogramma da La donna scimmia

Per Ferreri infatti è come se la società fosse una grande dispositivo che per funzionare deve muovere da un polo maggiore a un polo minore. Il che implica che deve esserci sempre qualcuno che esercita il potere e qualcuno che si sottomette a questo potere. Ma non si tratta soltanto di stabilire una gerarchia, perché anche chi apparentemente ha successo in realtà si trova vincolato e schiavo del dispositivo. Anzi lo è maggiormente rispetto al perdente. Per Ferreri chi è sconfitto, sottomesso, in altri termini diminuito del proprio potere, risulta più umano di colui che accetta il prezzo da pagare per esercitare tale potere. Ossia la spietatezza, l’ipocrisia e, infine, la disumanità. Chi si sottomette, tutto sommato, si rivela più libero (almeno dal giogo sociale) di chi fa tutto per stare sopra. Basti pensare al protagonista de La donna scimmia, personaggio grottesco che incontra, seduce e sposa una donna dall’aspetto scimmiesco solo per sfruttarne l’eccezionalità a fini commerciali e migliorare la propria condizione. Viene in mente Freaks di Tod Browning. Solo che qui a «vincere» non sono i marginali, i mostriciattoli buoni, ma il profittatore ipocrita dall’aspetto sano e bello che, in realtà, si rivela più mostruoso (anche magari inconsapevolmente mostruoso) della sua povera consorte.

Il cinema di Ferreri è pertanto più che altro interessato a mettere in scena il maschio e la femmina come apparati sociali, ovvero come elementi differenziali del macro-apparato sociale che li determina. Questo anche per mostrare come l’essenza antropologica dell’Uomo coincida con una sorta di amore mistico e di felice sottomissione ai dispositivi, siano essi macchine semplici (come l’auto che ossessiona il pilota Mastroianni ne La grande abbuffata) o macchine complesse, come le apparecchiature politiche e culturali (Chiedo asilo, L’udienza). Lo si può evincere facilmente dalla visione di Dillinger è morto. In particolare dal rapporto con gli oggetti d’uso quotidiano di Michel Piccoli. In Dillinger è morto il protagonista è una sorta di Jaques Tati, la cui relazione con gli oggetti fabbricati dall’Uomo contemporaneo è altrettanto surreale e grottesca di quella di Mon Oncle, ma allo stesso tempo molto più disturbata e molto meno comica. Ne è emblema la pistola che egli personalizzerà dipingendola a pois (e che userà tragicamente nel finale). Pistola che poi ricomparirà nel successivo film distopico-fantascientifico, Il seme dell’uomo, altro apologo sui rapporti maschio-femmina. Qui una coppia si ritrova intrappolata in una solitudine non voluta, causata da un’epidemia a là Camus. Il film, visionario ma a onor del vero poco riuscito sul piano del ritmo, ha il pregio di chiarire (nel finale) che per Ferreri la compressione nel ruolo sociale degli individui non può che portare alla sconfitta dell’Uomo, ma anche, se ce ne fosse stato bisogno, che è un’assurdità l’idea che si possa riportare i rapporti tra sessi indietro nel tempo, a prima delle conquiste femminili del Novecento.

Non sempre Ferreri declina la sua dialettica master & servant in modo caustico e negativo. Ne La cagna, film in un certo senso preparato dal precedente Il seme dell’uomo, dietro all’apparentemente grottesca scelta di una donna che si propone di sostituire il cane del protagonista (lei ne ha cagionato la morte per gelosia) Ferreri ci consegna una storia dal finale aperto, onirico e quasi toccante invece di un finale pessimista o moralistico. Segno che non necessariamente la differenza di polarità, lo squilibrio tra le forze, per Ferreri deve giocare un ruolo negativo. In primo luogo, però, non deve sfuggirci il fatto che i due protagonisti del film siano assolutamente eccentrici, antisociali e, ognuno a proprio modo, anarchici. Il protagonista, Giorgio, è una sorta di Robinson Crusoe a cui la solitudine sulla spiaggia di un’isola non capita a causa dei marosi della vita, ma è frutto una scelta ponderata. La sua è una vera e propria fuga vitale, funzionale al sottrarsi a una vita borghese con una moglie molto simile a quella de L’ape regina. Una donna che è l’esatto opposto della coprotagonista, Liza, che preferisce affidarsi a un’esistenza semplice come quella di un cane e fuggire, come un Venerdì in gonnella, dal sacrificio umano che richiede lo stile di vita «cannibalico» che conduceva sulla barca a vela. Nonostante la marcata differenza tra il vigore volitivo, la vis dominante di Giorgio e la sottomissione caparbia di Liza, i due in realtà son molto simili tra loro, perché sono entrambi due individui in fuga dalla società. Nel finale i due protagonisti volano via su un residuato bellico ridipinto di rosa, come a suggerire che quella tra Liza e Giorgio, sotto la superficie del rapporto vagamente sado-masochistico, non è una relazione conflittuale, ma amore.

La cagna di Marco Ferreri

Fotogramma da La cagna

Non a caso il personaggio chiave del film è quello di Liza. Forse perchè in questo gioco del sopra e del sotto, di chi si aumenta a discapito di chi viene diminuito, per Ferreri è proprio la strategia della diminuzione quella più adatta a sconfiggere la Grande Macchina sociale che rende tutti schiavi. Per capire questo punto della poetica del regista non c’è film migliore de L’udienza. L’udienza è un film dall’impianto fortemente kafkiano, largamente ispirato al racconto Davanti alla legge (la storia di un bravo suddito che vorrebbe accedere al cuore del palazzo ma viene fermato ogni giorno dal guardiano al primo portone). È il film più buñelliano e wellesiano di Ferreri, nel senso che è chiaro qui il confronto a distanza di Ferreri con il Buñuel messicano de L’angelo sterminatore (storia di una cena fra i personaggi dell’alta borghesia che non riescono più a uscire fuori dalla casa del ricevimento a causa di una forza psicologica e invisibile che li intrappola) e con l’Orson Welles de Il processo.

L’udienza è la storia dello stralunato Amedeo (Enzo Jannacci), giovane che si trova a Roma, all’interno di una qualche stanza del Vaticano, perché ha l’intenzione di parlare con il Papa. Durante un incontro collettivo e informale a cui partecipa, gli viene comunicato che non deve rivolgere la parola al Santo Padre, benché non sia espressamente vietato farlo. Amedeo si informa meglio presso un alto prelato chiedendo spiegazioni su quella regola non scritta: «È vietato o no?». La sua domanda innocente fa scattare un meccanismo difensivo da parte dell’apparato del Vaticano e, saputo che l’intento di Amedeo è proprio quello di rivolgersi al Papa, il capo delle guardie (Ugo Tognazzi) lo fa allontanare. Il capo delle guardie potrebbe acconsentire un incontro tra il giovane e il Papa, il problema è che i motivi della richiesta di Amedeo non sono chiari. Amedeo infatti non vuole spiegare qual è l’argomento del suo colloquio, perché può riferirlo solo a chi siede sul soglio di Pietro e si trincera dietro il suo legittimo segreto, aggiungendo solamente che l’incontro «è anche nell’interesse del Papa». La reticenza di Amedeo porta l’apparato vaticano a respingere sempre le sue richieste, senza tuttavia mai ben chiarire il motivo del respingimento.

Il seme dell'uomo di Marco Ferreri

Il seme dell’uomo di Marco Ferreri

L’udienza sembrerebbe un film tutto giocato all’interno delle logiche del potere maschile. La ricerca di Amedeo infatti è la ricerca di un rapporto con il Padre simbolico, mentre il capo delle guardie rappresenta la potestà castrante del potere patriarcale. In verità nel corso del film Amedeo viene spinto nelle braccia d’una prostituta (metafora della Chiesa Romana o allusione alla Grande Meretrice dell’Apocalisse?) che lo prende in simpatia e con cui inizia una relazione. La donna (Claudia Cardinale) è l’unica che prova ad aiutarlo grazie alle entrature sociali che può spendere in virtù dell’esercizio della sua professione proprio negli ambienti vaticani. Incontrare principi, alti prelati, teologi, preti operai non servirà comunque a nulla, se non a creare una sorta di esaurimento psicofisico in Amedeo (che però viene ricoverato in manicomio più sulla base delle pressioni del capo delle guardie che sulla base d’una diagnosi psichiatrica). Alla fine anche il rapporto con la prostituta va in crisi e lei, forse incinta di lui, sceglie d’accasarsi con il Capo delle Guardie. La figura della prostituta ci fa capire che il film va al di là della dimensione gerarchica maschile e che, forse, più che riuscire a trovarsi di fronte al Padre (Santo) quello che vorrebbe fare Amedeo è penetrare (nel) la Chiesa (e forse fecondarla simbolicamente).

Il finale de L’udienza però è esemplificativo della dialettica pro-diminuzione di Ferreri. Amedeo finisce col morire proprio davanti alle porte di San Pietro, disprezzato e deriso dal poliziotto che ne ha sempre respinto le richieste e gli ha rubato la donna, ma, proprio nel momento in cui la sua vita viene meno, un altro giovane si presenta al portone d’ingresso del Vaticano e chiede udienza con il Papa.

Note

[1] Basti ricordare che l’unica a celebrarlo degnamente è stata Anselma Dall’Oglio che ha confezionato un onesto documentario sul regista, La lucida follia di Marco Ferreri, presentato all’ultimo festival di Venezia ma uscito solo a dicembre 2017.

di Amedeo Liberti

Autore

  • È redattore de La Tigre di Carta. Dopo gli studi di Filosofia e in Analisi e Gestione dell'Ambiente e del Paesaggio, si dedica alla sua terza grande passione assieme a Pensiero Teoretico ed Ecologia, fare il videomaker. Un suo corto "La Banalità Del Mare" è stato accettato al XIII Siena Short Film Festival. Oggi lavora come proiezionista per la Fondazione Cineteca Italiana. In pratica è sempre al cinema.

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