La diminuzione

La musica cambia, gentile pubblico, e intona un timido minuetto in sordina. Chi non è sordo ai segnali del destino noterà che questa Diminuzione segue all’Abbondanza – tema dello scorso numero della Tigre – come nella danza di un cuore ricolmo di zuccheri che si contrae per rigetto e rinchiude in una sistole. L’argomento si è schiuso dall’I Ching in chiusura della scorsa stagione, prima che il minuetto degli eventi mi portasse a trovare nel paese più grande della terra una fervida abbondanza di sparute minoranze: le costellazioni etniche della Federazione russa. Dai tatari ai baschiri, dai ciuvaschi a ceceni e armeni, e poi osseti, tagichi, azechi, cumucchi, circassi, dolgani, fino agli oroci.

I Ching - esagramma 41 - La diminuzione

I Ching, esagramma 41, “La diminuzione”

L’immensa transumanza nordista, un’alternativa al Drang nach Osten, verso un’Asia da noi finora trascurata, imita il movimento descritto dall’esagramma n. 41 dell’I Ching, in cui il lago che sta sotto evapora e sale verso l’alto della montagna. Forse gli Urali, chissà. Non poche popolazioni, in effetti, intrapresero un simile coatto nomadismo. Čechov racconta che gli Ainu dell’Hokkaido, scacciati dai giapponesi, emigrarono a nord verso l’isola di Sachalin, allora residenza di katorga e colonie penali, così come i buriati, popolo buddhista mongolo, fu depistato dalla colonizzazione fino in Siberia, dove virò cultualmente verso lo sciamanismo. Eliade ce li descrive attraverso miti curiosi ma illuminanti sul tema della minorazione. Che per causa dello sciamano Khara-Gyrgän, il quale rimpicciolì trasformandosi in ragno per pungere Dio in viso, derivi per punizione una diminuzione dei poteri imposta agli sciamani a venire, dice molto sulla messa in discussione del principio di autorità. Eppure, l’esagramma che fa da perno a questo numero, per ammissione dello stesso I Ching, «non significa in ogni caso qualche cosa di male».

Anche durante il festival Oglindă (“specchio”) organizzato al teatro Corte dei Miracoli in omaggio al rapporto distintivo fra tradizione ròm e cultura romena si sono meglio descritte le origini di alcune minoranze etniche costrette in diaspora, come il popolo banjara che, cacciato dall’India dopo il crollo della dinastia Gupta, ha forse dato origine al gruppo ròm genericamente inteso. Nel confronto speculare vi si riflette la diaspora intellettuale romena dello scorso secolo, e torna in testa lo stesso Eliade, capace di fissare con un neologismo una dinamica di minorazione del tutto positiva. Si tratta dell’entasi. All’ascesi immaginata come uscita fuori di sé, sottoforma di diastole spirituale, nelle pratiche orientali imperversa piuttosto, rispetto alla mistica occidentale, l’idea di immersione dentro di sé verso l’abbandono delle suppellettili dell’Io (corpo, sensi, ego, etc.) per accarezzare il morbido cuore del carciofo del proprio ātman (il Sé).

Per riuscirci, occorre una regressione verso il seme della coscienza, verso quel bīja che il buddhismo descrive come “seme” o “germe” racchiuso all’interno degli esseri. Sarà di nuovo dalla Russia che l’onorevole Madame Blavatsky si imbatterà nell’analogo concetto di Fohat, che, nella terza delle sette Stanze di Dzyan da lei composte per tradurre un antico testo esoterico tibetano, rappresenta l’elettricità cosmica primordiale che ha il compito di «consolidare gli atomi», e svolge perciò – a detta della teosofa – un ruolo simile al protile, la sostanza omogenea primitiva descritta a quel tempo dal chimico Sir William Crookes.

I Ching, esagramma 26, "Il viandante"

I Ching, esagramma 26, “Il viandante”

Non è forse un caso che la divulgazione del manoscritto segreto di Dzyan da parte della Blavatsky sia avvenuta tramite una semplificazione del suo linguaggio simbolico, poiché la stessa diminuzione insegna che «non bisogna vergognarsi della semplicità». La lingua Senzar in cui fu scritto l’originale tibetano, composta di logogrammi antecedenti persino al sanscrito, esaudisce perciò sia il metodo regressivo del bīja che il contesto linguistico del bīja-mantra nel quale esso sovente si presenta. Il mantra stesso, come distillato del linguaggio, è capace a sua volta di ottenere un’ulteriore e proficua diminuzione nella forma delle dhāraṇī, formule magiche abbreviate allo scopo di condensare la focale meditativa verso l’apice espressivo.

Comportamenti allusivi possono essere ritrovati nella coestensione sillaba-significato propria della lingua cinese oppure, al di fuori della logica semantica, nelle particelle kireji di cui si serve la poesia haiku per rimpolpare il numero dei versi fino a ottenere la formula metrica prefissa infischiandosene del nonsense che questi importano all’interno del contenuto.

La vetta più innevata di questa settentrionalizzazione del significato al di sopra delle pendici del senso, sino al piedistallo di una piena manifestazione in bilico sul punto di pura semplicità, la possono ormai tutti indovinare. Persino gli indecisi, se intensificano il baritono del loro “ehm” perplesso, ci arriveranno. Si tratta della sillaba Oṃ (ॐ). Nel decollo del suo fonema ininterrotto ed evocativo ritorna infine l’immagine con cui l’I Ching apre il capitolo sulla Diminuzione, cioè quella della salita dell’elemento soggiacente a vantaggio del superiore. L’Oṃ infatti si realizza appieno quando la sillaba vocalica diventa dapprima anusvāra (“dopo la vocale”) nella forma Om̐, e infine anunāsika (“dopo il naso”) nella forma Oṃ, quando si trasforma nel suono tutto congestionato che trascende l’identità pneumatica in un tangibile e indistinto raffreddore, per cui urge un buon aerosol.

Rocca di Burchan, dimora della principessa Angara | Isola di Olkhon, lago Bajkal (Siberia)

Rocca di Burchan, dimora della principessa Angara | Isola di Olkhon, lago Bajkal (Siberia)

Dalle terre dei buriati, lungo le sponde del lago Bajkal, dove si profila trepido il sopracciglio dell’isola di Olkhon, proviene così la storia che conclude i nostri pensieri nebulosi. Angara, la bella principessa figlia del signore del lago, è da lui rinchiusa nella rocca di Burchan, ma chiede aiuto ai suoi fratelli che implorano le acque di evaporare e ritirarsi per consentire alla bella Angara di fuggire dalla prigione e ricongiungersi con il suo amato, il principe Enisej.

Il nostro pellegrino russo che viaggia in solitaria verso laghi e leggende può ora ricordarsi delle parole dell’I Ching:

Quando il viandante è solo
Egli trova il suo compagno.

di Federico Filippo Fagotto

Autore

  • Federico Filippo si risveglia dal sonno dogmatico nella bella facoltà di Filosofia in Statale e si riaddormenta con gli studi a Venezia. Tornato a Milano, dopo il gong della laurea in Scienze Filosofiche, inizia collaborazioni con la cattedra di Estetica e nel frattempo, in fuga dall’accademismo, ha la fortuna di radunare un gruppo di ragazzi pieni di stoffa e fondare la rivista di arte e cultura La Tigre di Carta, cui segue l’Associazione culturale La Taiga che gestisce il teatro e circolo culturale Corte dei Miracoli. Fra editoria ed eventi, gioca col violoncello il bridge e lo yoga. Tutto ciò non fa bene alla salute... meglio scrivere!

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