Estetica della sottrazione dal Dogma 95 al cinema di Kaurismäki
Uomo senza passato: «Cosa ti devo?»
Elettricista: «Se mi trovi a faccia in giù per strada girami dall’altra parte.»
Uomo senza passato: «E a lei chi l’ha mandata?»
Avvocato: «L’Esercito della Salvezza.»
A volte per ottener molto bisognerebbe saper far meno invece che più. Recita un adagio popolare, nonché il titolo d’una famosa commedia con Pryor e Wilde, Chi più spende più guadagna. Anche l’esagramma 41 dell’I Ching, La diminuzione, dice chiaramente che bisogna saper rinunciare (oggi) per ottenere successo (domani). Senza scomodare l’oracolo cinese il cinema ci ha offerto, storicamente, numerosi esempi di quanta verità e saggezza si celino in questa frase.
Il caso più famoso è quello del Neorealismo italiano, la cui rivoluzione filmica deve molto alla povertà di mezzi in cui l’Italia si trovò a fine guerra. L’improvviso stato di necessità costrinse tutta una generazione di registi, scenografi, scrittori e tecnici del cinema ad aguzzare la fantasia traducendo la povertà di mezzi e di danaro in una ricchezza di stile e contenuti che ammaliò il mondo, Hollywood compresa. Quella stessa Hollywood che, sebbene non abbia mai visto venire meno la sua capacità produttiva e finanziaria, attraversa crisi di creatività periodiche. È che quando non ci son limiti alla creatività questa si può tradurre in mero conformismo e si finisce non solo col raccontare sempre la stessa storia, ma anche col raccontarla sempre nello stesso modo.
La lezione del Neorealismo è stata così forte che non è da escludere che Lars Von Trier e Thomas Vinterberg abbiano pensato a Rossellini & Co. quando, nel 1995, resisi conto che la rivoluzione digitale avrebbe consentito un’esplosione di immagini cinematografiche senza precedenti, decisero di stilare un manifesto volto a disciplinare rigidamente il cinema: il Dogma 95. L’essenza del loro programma estetico può esser riassunta in quattro parole: togliere, togliere, togliere e ancora togliere. Via le luci artificiali, via la musica di sottofondo (non giustificata da mezzi di riproduzione presenti nell’inquadratura), via i carrelli, i dolly e le gru (solo camera a spalla) via le trame a tinte forti (omicidi, ecc.). Ne scaturirono un paio di capolavori come Festen e Gli idioti e poco più di una trentina di altri film. Non fu quindi proprio un successo in termini numerici e di adesioni. Forse perché gli stessi registi che firmarono il manifesto furono i primi a tradirlo e a non rispettarlo appieno. Nonostante ciò non si pensi che l’appello di Von Trier e Vinterberg fosse puerile. In verità alcune intuizioni di Dogma 95 appartenevano allo spirito di altre epoche del cinema e alla sensibilità di una platea ben più ampia di coloro che ne sottoscrissero il manifesto. Un film come La promesse dei fratelli Dardenne, per esempio, uscito l’anno successivo alla dichiarazione di intenti di Von Trier e Vinterberg, ben prima che questa fosse nota al grande pubblico, rispetta i criteri Dogma 95 molto più pienamente di quasi tutti i film accreditati al manifesto Dogma 95. È che la lezione della diminuzione del Neorealismo aveva già sedotto, senza tanto clamore, altri registi prima di Von Trier.
Tra coloro che hanno sempre inteso il cinema come una musica in minore, ci sono l’americano Jim Jarmusch e il finlandese Aki Kaurismäki. Mentre però Jarmusch negli anni Novanta sembra abbandonare il minimalismo di opere come Daunbailò, per lanciarsi in lavori più articolati e ricchi (come Dead Man e Ghost Dog – Il codice del samurai), per tornare al minimalismo con i più recenti Broken Flowers e Patterson, Aki Kaurismäki è rimasto sempre fedele alla filosofia della diminuzione.
Già nella scelta dei personaggi che, nei suoi film, sono quasi sempre individui semplici, umili se non proprio dei reietti, dei “figli di un ciack minore”, possiamo cogliere quanto la lezione neorealista si sia incisa nelle corde artistiche di Kaurismäki. Kaurismäki, però, va anche oltre la lezione di semplicità del Neorealismo; o forse è un neorealista molto finnico che risente delle atmosfere dell’ambiente, sociale e naturale del Baltico. Almeno questo è quello che si può intuire da opere come Tatjana, al cui centro c’è l’incapacità (se non l’impossibilità) di comunicare i propri sentimenti. Il film è un road movie dove gli sguardi prendono il posto delle labbra. Ma nei film di Kaurismäki si trovano quasi sempre dialoghi ridotti al minimo o con un ritmo molto dilatato, poco serrato, che probabilmente risponde alla situazione culturale della gelida Finlandia.
Anche la sua direzione degli attori è sempre stata improntata alla sottrazione, sia nella mimica del volto che nella voce. Kaurismäki sembra essere un seguace di quella teoria filmica convinta che sia il montaggio a dare il senso alle espressioni degli artisti e che, pertanto, meno questi saranno espressivi meno interferiranno con l’obiettivo del regista. La tragica storia di una operaia in una fabbrica di minerva, La fiammiferaia, per esempio viene raccontata da Kaurismäki lasciando parlare più gli ambienti e i gesti che la protagonista e i comprimari. A volte ci sembra quasi di assistere a un documentario produttivo, o sulla vita degli operai, e persino il drammatico epilogo si svolge senza che sia pronunciata una parola.
La vocazione alla diminuzione di Kaurismäki lo ha portato a scelte registiche coraggiose, come l’uso del bianco e nero in epoca contemporanea in film come Amleto si mette in affari, Tatjana, Vita da bohème o il geniale Juha. Qui Kaurismäki toglie totalmente i dialoghi, riuscendo, alla fine del XX secolo, a costruire un film muto commentato solo musicalmente. Nonostante la mancanza di parole, però, non solo il film mantiene la sua piacevolezza e riesce ad appassionare lo spettatore, ma dalla sua visione non scaturisce una minore o superficiale comprensione della natura dei personaggi; al contrario, quel che ne emerge è una maggiore capacità di immedesimazione con i protagonisti. Paradossalmente, dunque, dai dispositivi filmici in sottrazione di Kaurismäki scaturiscono più profondità psicologica ed emozionale che da tante opere di ricchi autori hollywoodiani. Persino il divertimento a volte è maggiore, grazie a uno stile impregnato d’un umorismo e di una ironia sottili capaci di insinuarsi dentro lo spettatore e restarci nel tempo.
È il caso del suo film capolavoro, L’uomo senza passato, che già nella trama si presenta come un’opera in cui quel che è stato tolto permette a quel che sarà di avverarsi. È la storia infatti di un uomo che perde la memoria a causa di un pestaggio selvaggio. Dopo una morte simbolica si costruisce una nuova identità, grazie all’aiuto di un gruppo di senzatetto che occupano abusivamente i container del porto, che lo accolgono tra loro, e all’Esercito della Salvezza.
Il film è talmente pregno di sottrazioni da rispettare gran parte degli elementi dei Dogma 95. La musica nel film è, per esempio, sempre giustificata dalla presenza di un juke-box o di una radio o di un complesso che suona (la musica è comunque un elemento fondamentale del film). Kaurismäki si toglie così la possibilità di utilizzare la musica per manipolare di soppiatto lo spettatore. È vero che egli non utilizza mai la camera a spalla, ma solo perché anche i movimenti di macchina sono portati all’essenziale e la camera è quasi sempre fissa. A Kaurismäki anche la camera a spalla non serve, perché ha quasi tolto del tutto il movimento alla cinepresa e ha riportato il cinema ai suoi primordi. Egli preferisce lasciare che il movimento e l’azione si compiano all’interno di una singola inquadratura (come ai tempi dei Lumière) e lavorare con il montaggio, piuttosto che costruire elaborati piani sequenza in cui è la camera a muoversi. Ne L’uomo senza passato persino le panoramiche sono ridotte al minimo e si contano sulla mano. Gli unici veri e propri piani sequenza si hanno all’arrivo del protagonista alla stazione e nel finale, quando i due innamorati si allontanano oltre la ferrovia, ma senza diminuire nella mente dello spettatore.