Non tutto il mondo è paese

Regionalismi e istanze europeiste che trasformano gli Stati

Con la nascita e lo sviluppo della globalizzazione, il dibattito sulla gestione politica dei territori nazionali è andato infiammandosi sempre di più. Alle istanze universalistiche che sembrano in qualche modo seguire lo spirito della storia contemporanea si contrappongono le spinte autonomiste che hanno provocato molte situazioni variegate e complesse: dalla Rivoluzione degli Ombrelli a Hong Kong, ai fenomeni occidentali della Brexit e dei referendum sull’indipendenza della Scozia, della Catalogna e del Kurdistan iracheno. L’Unione Europea rappresenta meglio di qualsiasi altra realtà territoriale i termini del dilemma in cui è incorsa l’umanità. Persino lo Stato che ne costituisce il cuore è tutt’ora attraversato dalle irriducibili correnti autonomiste a base regionale che per secoli sono state  protagoniste della composita e contraddittoria identità belga. Gli eventi hanno assunto spesso i contorni indefiniti del paradosso. A volte le componenti indipendentiste non fanno altro che favorire il passaggio da un universalismo a un altro, magari anche più vasto e solido, come nel caso dei territori contesi tra la Federazione Russa e l’Ucraina in seguito alle proteste dell’Euromaidan. Anche nel nostro Paese le spinte regionaliste non hanno perso mordente, sebbene l’ultimo referendum in tal senso ne abbia evidenziato la mutevolezza e l’incostanza.

Che questo genere di problemi non sia una novità è un dato evidente. Gli ultimi decenni del secolo scorso sono stati ricchissimi di tensioni analoghe. Appare del tutto ovvio il riferimento al collasso dell’Unione Sovietica, alla decolonizzazione, al conflitto civile in Sri Lanka, alla guerra del Kosovo o alle pagine più nere scritte nel quadro dell’indipendentismo corso e irlandese, talvolta da chi lo sosteneva, talaltra da chi lo combatteva. Gli esempi storici si sprecano e più retrocediamo lungo il corso degli eventi, più ne incontriamo. La storia ci insegna che questo problema ha buone  speranze di sopravvivere fino alla fine dell’Antropocene, ma purtroppo non ci insegna granché su quale possa essere la percentuale di ragione attribuibile aprioristicamente a chi promuove l’universalismo piuttosto che il suo contrario.

Non abbiamo molte difficoltà a far andare il pensiero a realtà di stampo universale che si sono coperte di gloria nel garantire periodi di pace, prosperità e progresso. È stata grossomodo una costante di tutti i grandi regni e gli imperi di ogni epoca la capacità di garantire qualcosa in termini di civilizzazione ai propri sudditi. Persino i regimi più sanguinari hanno comunque dovuto tentare in qualche modo di apparire utili e necessari agli occhi di chi governavano. Tuttavia, non risulta molto più difficile trovare esempi altrettanto virtuosi nell’opposta casistica.

Durante la tarda antichità, l’indebolimento dell’Impero Romano, la sua divisione e la caduta della porzione occidentale che conservava il legame diretto con Roma avevano rappresentato un trauma assoluto per gli europei. Pace, prosperità e sviluppo erano concetti che non potevano in alcun modo trovarsi separati dall’autorità del princeps e del Senato imperiale. Il fatto che questi soggetti svanissero o che perlomeno non avessero più alcuna effettiva autorità su larga parte delle terre che in precedenza costituivano il centro della civiltà romana, tanto da non poter più nemmeno impedire che Roma stessa cadesse preda di saccheggi e devastazioni, era in sé e per sé nulla di meno della fine del mondo, della bellezza e della vita. Durante l’Alto Medioevo, però, il Sacro Romano Impero, l’Impero Romano d’Oriente, la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa seppero addossarsi il peso di rappresentare il riferimento essenziale di qualsiasi pensiero ideologico o geopolitico che un europeo di allora potesse rappresentarsi su larga scala. Il ruolo di questi universalismi fu essenziale per svolgere quel complesso lavoro di conservazione e superamento del mondo antico di cui l’Occidente aveva bisogno per sopravvivere. Essi infusero la vita nell’attuale nucleo identitario del nostro continente, preservandone il patrimonio culturale e restituendo un futuro alla costellazione di popoli che lo componevano. In questo caso, come solitamente accade, l’importanza delle realtà più grandi sembra commentarsi da sola, mentre quella delle realtà più piccole sembra richiedere la lente dell’analisi per saltare all’occhio. Malgrado la loro importanza, infatti, nessuna di queste immense entità politiche è sopravvissuta alla frammentazione.

Leo Belgicus | Disegno del cartografo Michael Aitzinger realizzato nel 1583, durante la guerra degli ottant’anni (1568-1648) tra le Province Unite dei Paesi Bassi e il dominio spagnolo

Leo Belgicus | Disegno del cartografo Michael Aitzinger realizzato nel 1583, durante la guerra degli ottant’anni (1568-1648) tra le Province Unite dei Paesi Bassi e il dominio spagnolo.

Come il grande Impero Romano era riuscito a sopravvivere a se stesso in una versione plurale e divisa, così anche il Sacro Romano Impero e le due grandi Chiese dovettero affrontare le spinte divisioniste della storia. Il primo finì con l’essere sostituito dalle monarchie nazionali, le seconde dovettero accettare il fatto che di cristianesimo non ce ne sarebbe stato mai uno solo, né che potessero continuare a esservene solo due.

In verità, non sempre i particolarismi si sono rivelati conflittuali verso gli universalismi, soprattutto se l’universalismo in questione era di ampia portata. Non è affatto strano che sia un Paese piccolo come il Belgio, con una storia fortemente improntata all’affermazione della propria autonomia, a custodire la sede del Parlamento europeo. A distruggere il Sacro Romano Impero non è stato il campanilismo di qualche centro urbano, l’ingordigia dei suoi stessi principi o l’indipendentismo di qualche baronia, ma piuttosto la nascita delle grandi monarchie e l’affermarsi degli Stati nazionali come fondamento di un sistema politico-sociale che ha avuto un successo travolgente nel mondo intero.

Il motivo di questo successo stette proprio nella migliore capacità delle monarchie nazionali di mettere a sistema il territorio, distendendovi sopra una rete di funzionari che sapessero mediare efficacemente tra gli interessi particolari e quelli generali personificati dal sovrano e dai suoi burocrati. Quella ragion di Stato che i migliori Primi ministri della monarchia francese hanno reso celebre nell’età moderna esprimeva qualcosa di molto più valevole del mero interesse della Corona. Pur riservandosi tutto il diritto alla critica che gli era possibile strappare all’establishment, la quasi totalità del mondo intellettuale del tempo comprese e apprezzò lo straordinario cambio di marcia che l’organizzazione monarchica seppe imprimere allo sviluppo economico europeo a partire dal XII secolo d.C., mentre questi risultati non sarebbero stati possibili alla lenta macchina dell’Impero. Una realtà immensa come la Russia degli zar poteva disporre di forze militari dai numeri strabilianti, ma era lentissima nelle fasi di mobilitazione e dispiegamento. Per certi versi, continuava a soffrire di quegli stessi elementi di debolezza che avevano provocato la caduta dell’Impero Romano. Il Sacro Romano Impero aveva funzionato bene in prima battuta anche perché Carlo Magno aveva saputo mediare direttamente tra particolarismi e universalismo, grazie all’impiego dei missi dominici e alla scelta di una Corte itinerante. Queste soluzioni però erano destinate a non durare alla prova del tempo, mentre la burocrazia dispiegata dai re su territori di gran lunga più piccoli risultò sistematicamente efficiente e rapidissima nel rispondere a ogni imprevisto. Gli Stati nazionali moderni risultarono unità compatte, solide e capaci di un coordinamento impensabile nelle vastissime realtà politiche dell’antichità e del medioevo. Non essendo caratterizzati dall’immensità di uomini e mezzi, non poterono nemmeno restare vincolate a un’economia puramente schiavile o al servaggio e dovettero procedere lungo il cammino del progresso tecnologico che, rinforzando soprattutto i sistemi di comunicazione, distribuzione e trasporto, resero sempre più potenti i meccanismi di controllo che li tenevano insieme.

Queste considerazioni mi portano a tentare una lettura inconsueta del particolarismo odierno. Esso potrebbe non essere affatto un moto antitetico all’universalismo rappresentato dall’Unione Europea, bensì la messa in discussione della sovranità assoluta che gli Stati pretendono di conservare sul proprio territorio a fronte della loro aderenza alla stessa. Per molti aspetti politici e strategici, i singoli governi nazionali rischiano di diventare degli inutili doppioni di quello continentale. Diminuendone la centralità, i regionalismi potrebbero anche finire col favorire la trasformazione degli Stati in realtà amministrative meno contraddittorie nei rispetti delle istanze europeiste. In altre parole, i particolarismi regionali e l’universalismo continentale potrebbero creare una torsione, al centro della quale il potere delle nazioni si ritroverà compresso e diminuito, rendendo possibile la creazione di una più ampia unità politica. Non voglio indurre il lettore a decidere se questo processo sia positivo o negativo per il nostro futuro, perché questa previsione richiede dati che solo un indovino può avere. Voglio solo metterlo davanti all’idea che le cose possano anche essere lette in questo modo, dopodiché il flusso della storia muoverà, come ha sempre fatto, i suoi passi verso le logiche e necessarie conseguenze delle proprie premesse.

di Ivan Ferrari

Autore

  • Laureato in filosofia, redattore della Rivista e socio collaboratore dell'Associazione culturale La Taiga dai giorni della loro fondazione, ha interessi soprattutto storici e letterari.

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