di Gianfranco Mormino
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Da Mosé ed Edipo fino a Freud e, soprattutto, Girard: la potenza dei grandi soggiace sempre al giudizio del gruppo, si è sempre eroi di qualcuno e l’idolatria riversa sul singolo la violenza della massa.
L’esagramma n. 34 allude a una storia così comune da sembrare addirittura un modello per la comprensione dei flussi e riflussi della fortuna dei potenti. Letto alla luce del “sospetto” novecentesco, pare illustrare la parabola di quei great men, sostituti del Padre (per Freud) o individui con segni vittimari (per Girard), che prima acquisiscono un immenso fascino mimetico sulle folle e poi vengono fatti a pezzi dai loro stessi seguaci. È il destino dei re sacri, il cui potere non ha limiti fino a quando regna la prosperità e che devono poi essere eliminati quando sopraggiunge una crisi.
Nessuna ascesa è il frutto di un semplice sforzo individuale; la grandezza di un uomo si fonda sempre sul giudizio di un gruppo, che esalta colui il quale le ha dato la salvezza in un momento di crisi (Mosè liberatore dalla schiavitù egiziana, Edipo che elimina la Sfinge). Compiere una grande impresa al di fuori di un contesto sociale è semplicemente impossibile: chi la giudicherà tale? L’eroe è l’eroe di qualcuno; e, se è un grande eroe, non può che essere l’eroe di tutti, cantato da aedi e trovatori. Solo in una prospettiva ingenua si può dimenticare che l’esagramma, alludendo alle potenze celesti o naturali, intende invece le dinamiche tutte umane dell’amore e dell’odio per qualcuno che si pone al centro dell’attenzione con azioni o capacità inconsuete, che destano profonda ammirazione. Ma la sorte di questi individui è spesso segnata: le crisi, si sa, possono ripresentarsi: la vita degli ebrei nel deserto comporta dure sofferenze, a Tebe dopo la Sfinge arriva la peste… Il salvatore ed eroe di prima si trasforma nella causa della nuova crisi: chi, se non lui, spicca così tanto sulla massa da poter essere accusato di autoritarismo o di qualche orrendo misfatto?
Quanto vi è di più sinistro, a una lettura “girardiana” dell’oracolo, è l’accenno al pericolo che incombe su chi “si fidi della propria potenza senza chiedersi ogni volta se quanto si fa sia giusto”. Il tuono che piomba su di lui è la rabbia della moltitudine, eccitata dal giudizio che non perdona i potenti che si pongono sulla “via perversa degli empi”. L’idolo di ieri diventa il mostro da esecrare; non è difficile trovare una qualche forma di “ingiustizia” nei suoi comportamenti. Giobbe, uomo pio, rispettato e felice, cade improvvisamente in disgrazia: non sappiamo quale crisi abbiano eccitato contro di lui i suoi concittadini. Il prologo del libro parla di una “scommessa” tra Dio e Satana ma Girard sospetta qualcosa di molto più semplice: l’invidia per le sue ricchezze e la sua buona reputazione? Quel che è certo è che i suoi persecutori sono i suoi amici, la moglie, persino i ragazzini e i mendicanti, che prima lo guardavano dal basso in alto. I valori di poco prima sono rovesciati; il cielo si accanisce contro di lui, mandando tempeste e fuochi che distruggono i suoi campi e uccidono il suo bestiame. I briganti uccidono i suoi figli, egli viene colpito dalla rogna e il suo alito diventa fetido. La vox populi ha una spiegazione certa: deve aver commesso qualche ingiustizia, se persino le potenze celesti lo prendono di mira. L’unica cosa che non si vede è il carattere tutto umano della persecuzione: per porre fine alla crisi, l’eroe diviene un capro (non sorprende trovarlo nominato nel testo), destinato a essere sacrificato per dare soddisfazione agli dèi.
L’esagramma n. 34 è perciò un testo sacrificale, mirante a occultare le dinamiche sociali che portano alla rovina gli uomini grandi e ad avvalorare l’idea che sia l’ingiustizia dell’eroe, e non la violenza della massa, a far cadere su di lui l’ira del cielo.
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