La patina del tempo e la sua estetica sulla tela
Agli espedienti di molti pittori per accelerare o imitare il processo di invecchiamento delle tele e far acquisire alle opere il fascino del tempo si contrappone la reazione di chi, come Hogarth, nega al tempo il ruolo di creatore sapiente.
Quando tra il XVI e il XVIII secolo le gallerie principesche accrebbero i loro patrimoni artistici, si cercò di trovare fra le diverse opere un comune gusto estetico. Questo poteva essere ottenuto attraverso cambi di formato tramite ingrandimenti, come nel Mercurio e Argo di Diego Velázquez; tramite decurtazioni, la più nota delle quali è quella legata alla Gioconda di Leonardo da Vinci, che venne privata di due colonnine laterali in controluce che avevano la funzione di inquadrare e staccare la figura dallo sfondo; o ancora tramite cambi di formato, sorte toccata per esempio alla tavola di Guido Reni intitolata Il Disegno e la Pittura, a cui venne data una forma tonda.
Nel 1722 il pittore inglese Jonathan Richardson osserva che La Madonna del Baldacchino di Raffaello e il Cristo risorto fra gli Evangelisti di Fra Bartolomeo, la prima ingrandita e la seconda riquadrata da Niccolò Cassana per conto del Gran Principe Ferdinando de’ Medici, sembravano nate per stare assieme e si accordavano in tutto, soprattutto nell’intonazione[1]. Purtroppo oggi non riusciamo più ad apprezzare questa qualità, poiché il dipinto di Fra Bartolomeo è stato trasportato da tavola a tela nel 1806 dal Foucque[2], ma l’affermazione di Richardson ci indica che anche la tonalità di colore doveva essere omogenea per non creare effetti dissonanti nelle gallerie. E qual è il mezzo più semplice per ottenere che opere dai colori in contrasto si armonizzino? Il tempo! Infatti il suo scorrere provoca un ingiallimento dell’olio e della vernice, abbassa i toni chiari e schiarisce le campiture scure. Questo effetto sarà amato talmente tanto che alcuni pittori tenteranno di imitarlo e inizieranno a pensare alle loro opere in previsione del passare degli anni. Persino i collezionisti rifiuteranno opere importanti per via delle loro tonalità troppo fresche: è il caso del principe Leopoldo de’ Medici, che rifiuterà l’Adorazione dei pastori del Veronese perché non presentava la caratteristica patina del tempo[3].
Nel Seicento fu coniato il concetto di “Tempo Pittore”, intendendo con questo il passaggio positivo degli anni sull’opera d’arte, che interviene per dare maggiore armonia ai dipinti: il Tempo era visto come un artifex e considerato importante tanto quanto la mano dell’artista.
Nel 1660, il veneto Marco Boschini mostrerà il suo apprezzamento verso gli effetti del tempo sui quadri:
Cusì intravien aponto a la Pitura:
la Patina del Tempo fa do efeti,
colori vien sempre più perfeti,
e in mazor stima l’istessa fatura[4].
E lo farà anche il poeta John Dryden, come si può vedere dalla chiusura della lunga poesia indirizzata nel 1694 al pittore Sir Godfrey Kneller:
Verrà del tempo la maestra mano,
a dare all’opre tue l’ultimo tocco;
che colla bruna patina i colori
ammorbidisca, e accordi; e quella grazia
aggiunga lor che sol può dare il tempo;
porti il tuo nome a’ Posteri, e più rechi
bellezze all’opre tue che non ne toglie[5].
Questo gusto spinse molti pittori a far passare alcune loro opere per antiche, come Terenzio da Urbino o Bartolomeo Manfredi, mentre spinse altri artisti a pensare alle loro opere in vista di un futuro assestamento, come ad esempio fecero Guido Reni e Donato Creti[6]. Atteggiamenti di questo tipo portarono anche scompiglio nel mondo del restauro, perché si doveva pensare a come e quanto pulire un dipinto senza andare a intaccare la volontà dell’artista che voleva rendere “vecchio” il suo quadro, ed è questo l’aspetto di cui si terrà conto nel Settecento.
Tuttavia, nella sua polemica contro i black masters (i “pittori neri”), William Hogarth nel 1753 scriverà che:
Un colore diventa più scuro, un altro più chiaro, uno affatto di un colore indifferente, mentre un altro, come l’oltramarino, manterrà il suo natural lucido anche nel fuoco. Perciò come è possibile che tali differenti materiali, sempre variamente cambiando (visibilmente dopo un certo tempo) dovessero accidentalmente coincidere coll’intenzione dell’artefice […] quando è evidentemente contrario alla loro natura, perché non veggiamo noi in più raccolte, che il troppo tempo disunisce, discorda, oscura, e a poco a poco distrugge anche le pitture meglio conservate[7]?
Già nel 1761 Hogarth si scagliava contro il concetto del “Tempo Pittore” dando alle stampe un’incisione dal titolo Time Smoking a Picture, nella quale vediamo la figura alata del Tempo seduta su un cumulo di statue rotte accanto a un vaso di vernice che, dopo aver appoggiato la sua falce al quadro lacerandolo, soffia una grossa boccata di fumo sull’opera d’arte di fronte a lui. Lungo la cornice del dipinto compare una scritta in greco che recita: «Il tempo non è un creatore sapiente, perché rende ogni cosa più debole».
Nel XVIII secolo, gli effetti del “Tempo Pittore” verranno apprezzati sempre di più nei limiti dell’assestamento dei materiali originali, tant’è che Francesco Algarotti nel 1762[8] e Jean-Étienne Liotard nel 1781[9] metteranno in guardia i giovani che si avvicinano all’arte sull’importanza di saper discernere tra gli artifici della pittura e la realtà della natura. La corretta visione delle opere del passato e la giusta distinzione tra espediente tecnico e naturale corso delle cose permette ai giovani di affrontare la loro carriera guardandosi indietro senza rimanere succubi di queste vernici ingiallite, ma facendone la base della loro esperienza: «Il dilettante non giunge mai a farne pratica che non abbia vedute molte opere di uno stesso e notato seco qual genere di colori ami egli fra tutti, come gli comparta, come gli avvicini, come gli ammorzi»[10].
Non sempre il naturale decadimento delle cose è stato visto come un nemico da ritardare e affrontare, e anzi per molti anni è stato il metro di paragone del gusto estetico, della moda e del collezionismo. Bisogna fare tesoro del passato per avere ben chiara la nostra contemporaneità.
Note
[1] J. Richardson, Description de divers fameaux tableaux, dessins, statues, bas-riliefs etc. qui se trouvent en Italie in Traité de la peinture et de la sculpture, Herman Uytwerf, Amsterdam 1728 (I ed. 1722), pp. 125-126.
[2] G. Emile-Mâle, Le sejour à Paris entre 1799 et 1815 de quelques tableaux du Palais Pitti, in Florence et la France, atti del convegno, Institut français de Florence Ed., Firenze 1978, pp. 241-242.
[3] A. Conti, Storia del restauro e della conservazione delle opere d’arte, Mondadori Electa, Milano 2009, p. 96.
[4] M. Boschini, Carta del navegar pitoresco, Venezia, 1660.
[5] Tratto dalla poesia To Sir Godfrey Kneller, Principal Painter to His Majesty, 1694.
[6] A. Conti, Storia del restauro e della conservazione delle opere d’arte, cit., pp. 98-99.
[7] W. Hogarth, The Analisis of Beauty, Clarendon Press, Oxford 1955, pp. 130-132.
[8] F. Algarotti, Saggio sopra la pittura, Id., Saggi, Laterza, Bari 1963, pp. 83-84.
[9] J. Liotard, Traité des principes et des règles de la peinture, Pierre Cailler, Ginevra 1945, pp. 144-153.
[10] L. Lanzi, Storia pittorica dell’Italia dal risorgimento delle belle arti fin presso la fine del XVII secolo, Sansoni, Firenze 1968 (I ed. Bassano 1809), p. 26.