Nella ricerca scientifica è importante il lavoro di squadra; capita però che la “buona compagnia” venga “sovvertita”… e che il Premio Nobel finisca nelle mani di qualcun altro.
Rimasi a bocca aperta quando scoprii che Petrarca, in cammino verso Roma per il Giubileo del 1350, soggiornò da Boccaccio: due personaggi destinati a segnare la storia della letteratura italiana come avranno trascorso il tempo insieme, in che tono avranno conversato e quali discussioni avranno mai affrontato? – mi chiedevo. La stessa curiosità mi pervade quando penso alla tormentata convivenza di Gauguin e van Gogh ad Arles, oppure alla frequentazione di Brahms del salotto (…e non solo) degli Schumann. Troppe volte rischiamo di dimenticarci che le grandi personalità della cultura dei secoli passati erano spesso legate tra loro, influenzandosi e confrontandosi anche sulle loro opere.
Tale rischio è ancora più azzardato quando ci riferiamo alla scienza. In più occasioni, lʼI Ching mi ha già permesso di evidenziare come la ricerca scientifica sia in gran parte frutto di un lavoro di squadra. Nel numero 3 (La potenza del grande), ad esempio, abbiamo raccontato il caso della celebre collaborazione tra i grandi fisici dellʼatomo che, riuniti nel Progetto Manhattan, concepirono e costruirono la bomba atomica. Tanto nellʼarte quanto nella scienza, il lavoro di squadra più radicato è poi in realtà trasversale nel tempo: lʼeterno errare del fisico gli fornisce costantemente nuovi occhi per interpretare la Natura, in un costante dialogo con chi lo ha preceduto e chi lo seguirà (L’emendamento delle cose guaste, numero 6), ma anche con se stesso quelle volte in cui diventa opportuno tornare sui propri passi (La ritirata, numero 9).
Che la scienza sia palcoscenico di una “compagnia fra gli uomini” è riscontrabile direttamente nelle aule universitarie, in cui i docenti sono chiamati (o almeno dovrebbero) non tanto alla presentazione o elencazione di regole, quanto al passaggio di un testimone, in termini di forma mentis ed esperienze. Non è un mero passaggio di consegne “in perdita”: il vero insegnante è colui in grado di sapersi arricchire della compagnia e collaborazione dei suoi studenti. Un caso un poʼ estremo di questo tipo di “scambio” è stato quello instauratosi tra la dottoranda Jocelyn Bell e il suo relatore Tony Hewish.
Hewish, astronomo dellʼUniversità di Cambridge, negli anni Sessanta aveva progettato un radiotelescopio composto da 2048 antenne, disposte su unʼarea di quasi 20 chilometri quadrati, volto a recuperare informazioni sui quasar (quasi stellar radio sources). Oggi abbiamo unʼidea abbastanza definita di cosa siano questi oggetti e li associamo allʼemissione delle regioni più interne delle galassie attive, ma ai tempi erano stati da poco osservati per la prima volta e la loro descrizione era pertanto ampiamente in discussione. Per il suo progetto di dottorato, Jocelyn Bell aveva il compito di analizzare i segnali rilevati (immaginiamo delle sorte di elettrocardiogrammi) che venivano registrati su rotoli di carta. Nonostante lʼingente quantità di dati da analizzare manualmente (oltre 120 metri stampati ogni quattro giorni), Bell rimase presto colpita da un segnale che ritrovava in pochi centimetri di quei lunghi rotoli. Aveva infatti individuato dei fenomeni insoliti, alcuni segnali che apparivano troppo veloci e regolari rispetto a quelli osservati fino ad allora. Bell avvertì il suo professore che rimase piuttosto scettico. Verificato però che non si potesse trattare di un segnale terrestre, con altri astronomi etichettò quel segnale con la sigla LGM (Little Green Men), aprendo sarcasticamente alla possibilità che fosse un messaggio di una civiltà extraterrestre. Quando la stessa Bell scoprì unʼaltra serie di impulsi con caratteristiche simili, ma provenienti da unʼaltra zona di cielo, lʼipotesi fu scartata: poco probabile che civiltà tanto lontane tra loro inviino un segnale simile verso la stessa stella, il Sole.
La principale caratteristica di questi segnali, riscontrava Bell, stava nella precisione del loro periodo: ciò è inevitabilmente legato a una dinamica ciclica, come ad esempio una rotazione (attorno al proprio asse o a un altro corpo celeste), piuttosto che a una pulsazione. Hewish dapprima ritenne più plausibile questa ipotesi e chiamò lʼoggetto misterioso pulsar, dallʼinglese pulsating star. Oggi questʼipotesi è stata scartata e interpretiamo queste sorgenti come stelle di neutroni in rotazione su se stesse, ad altissima velocità. Le stelle di neutroni, che fino ad allora erano solo congetture teoriche, sono ritenute oggi lʼepilogo della vita di quelle stelle con massa compresa fra 1,44 e 3 volte la massa del Sole: una volta esaurito il “carburante” da bruciare, queste collassano in una stella di raggio pari a una decina di chilometri (meno dellʼattuale Linea Gialla della metropolitana di Milano), aumentando considerevolmente la loro densità e intensificando conseguentemente il loro campo gravitazionale. Tale contrazione è direttamente responsabile dellʼalta velocità di rotazione della stella sul proprio asse: se siete seduti su una sedia girevole, provate a darvi una spinta e osservate come la vostra velocità aumenta quando raccogliete le gambe al petto rispetto a quando le distendete in fronte a voi; è lʼeffetto della conservazione del momento angolare. Al tempo stesso, i forti campi magnetici che caratterizzano queste sorgenti collassate collimano la radiazione da loro emessa in coni di luce non perfettamente allineati rispetto allʼasse di rotazione: come la luce di un faro, al ruotare della stella veniamo colpiti da questi fasci di luce, con una cadenza modulata dalla sua rotazione.
Una volta che Bell riuscì a individuare altre due sorgenti con caratteristiche simili, i tempi divennero maturi per rendere ufficiale la scoperta: dopo la pubblicazione dellʼarticolo, che comparve sulla rivista Nature[1] il 24 febbraio 1968, gli astronomi di tutto il mondo si misero alla ricerca delle pulsar e ne individuarono a decine in breve tempo. Nonostante il clamore della scoperta, Hewish non fece modificare lʼargomento della tesi di dottorato di Bell, lasciando queste sorgenti da lei identificate solo in appendice[2]. Lʼarticolo di Nature, al contempo, aprì le porte del Premio Nobel per la fisica (1974) a Hewish, in particolare per gli apporti al campo della radioastronomia e alla scoperta delle pulsar. Nessuna menzione per Jocelyn Bell, sebbene (per quanto il progetto del radiotelescopio fosse merito di Hewish e Ryle, con cui condivise il premio) la scoperta delle pulsar sia dovuta decisamente alla sua tenacia e curiositas: si dedicò a quei dati che in molti avrebbero trascurato, benché non legati agli obiettivi della sua ricerca e nonostante lo scetticismo dei professori. Lʼingiustizia subita da Bell generò non poche polemiche nel mondo accademico, che accusò Stoccolma di discriminazione nei confronti degli studenti e talvolta di sessismo.
Pur non avendo vinto il Premio Nobel, Bell ha poi avuto una carriera scientifica di soddisfazioni e riconoscimenti. Qualche anno dopo, commentando la sua esperienza, affermò: «È stato detto che avrei dovuto avere una parte nel Premio Nobel che è stato assegnato a Tony Hewish per la scoperta delle pulsar […]. Io credo che il Premio Nobel perderebbe importanza se fosse assegnato agli studenti, tranne in qualche caso eccezionale, e io non credo che questo sia uno di quelli […]. E poi io non ne ho sofferto per niente – dopo tutto, sono in buona compagnia, o no?»[3]. Come direbbe lʼI Ching: «Compagnia fra uomini fuori mura: nessun pentimento».
Note
[1] A. Hewish, S.J. Bell et al., “Observation of a Rapidly Pulsating Radio Source” in Nature, 217 (1968), pp. 709- 713.
[2] S.J. Bell, “The measurement of radio source diameters using a diffraction method” (1969), https://doi. org/10.17863/CAM.4926.
[3] J. Bell, “Petit Four” in Annals of the New York Academy of Science, 302 (1977), pp. 685-689.