La coscienza di appartenere tutti alla stessa specie, spesso dimenticata e rivissuta nel tragico memorandum della guerra. È Montale a levare un verso per riunire i popoli, durante la bufera dell’umanità.
Tanti problemi stanno costellando il nostro mondo, tanti conflitti sparsi che riducono a carne gli esseri umani. La loro lontananza dal nostro Occidente è un buon antidoto rispetto al dolore e allo strazio di uomini come noi, noi che siamo abituati allʼalternarsi di otium e negotium.
Lʼesagramma 13 dellʼI Ching sembra fare riferimento a questo quadro internazionale, dando un consiglio ben chiaro: se la fragilità interiore si fonda su unʼunità esteriore, si riesce a compensare la nostra debolezza. Questo contrasto in termini può essere letto come specchio di un momento storico complesso, in cui manca la compagnia tra gli uomini.
Per comprendere meglio ciò che si intende, conviene richiamarsi alla poesia europea durante la Seconda guerra mondiale, che ha ben definito come la mancanza di armonia tra gli uomini porti alla distruzione più estrema. La poesia è essa stessa facilmente considerabile come un nucleo allo stesso tempo fragile, attorniato dalla forza di un conflitto terribile, e insieme forte, perché fa dellʼunione di fini comuni (tesi alla pace) la propria risorsa emotivo-esistenziale – tantʼè che la poesia sopravvive alla guerra, sempre. Tanti poeti hanno scritto dellʼultimo grande conflitto europeo, lasciandoci punti di vista sempre diversi, ma accomunati da un sostrato emotivo fragile; essi hanno fatto della riflessione sullʼestremo disagio dʼessere umani che si è respirato in quegli anni drammatici unʼoccasione di memento per i posteri di qualcosa di più profondo della guerra in sé, raccogliendo nei versi le ragioni ultime per cui lʼuomo uccide.
Tra i tanti, Montale – che da molti è considerato il poeta più rappresentativo del Novecento – ha scritto della guerra in una delle sue raccolte, La bufera e altro. A ben vedere, non è un caso che questa raccolta sia lʼultima “cantica” dopo Ossi di seppia e Le occasioni: nel suo complesso lo stesso Montale, parlando della sua opera, lo riteneva un trittico da leggere in continuità, al pari della Commedia dantesca.
La bufera e altro[1] è una raccolta incentrata su una figura interlocutrice, una sorta di Beatrice, però trasposta nellʼAmerica del Nord («Quando di colpo San Martino smotta / le sue braci e le attizza in fondo al cupo / fornello dellʼOntario», p. 247); un chiaro riferimento a Dora Markus, sua amante già citata ne Le occasioni (vedi La casa dei doganieri o la sezione I mottetti), la quale in questi versi assurge a figura quasi divina. Quasi perché è una divinità sporcata dalla natura, dalla quotidianità, tantʼè che non trova collocazione in un ambiente esterno, ma è interna, è presente, è viva nella natura. Questa sua presenza è evidente, sotto forma di essere al di sopra della natura, messaggera (angelo) di un Dio imprecisato, assente, simbolico, un Dio oggetto la cui identità non importa, perché lʼinterlocutrice dʼelezione in questo percorso che è la Bufera – in questʼesito – è lei, ossia un Tu («Io non so, messaggera / che scendi, prediletta / del mio Dio (del tuo forse) […]» p. 251). Un Tu di cui sfugge a tratti lʼidentità, finché non prende piena forma nellʼidea parallela di una Beatrice riadattata e risistemata. Se in Ossi di seppia si vive una sorta di Inferno, ambientato in una Liguria aspra, rocciosa, che ricorda con eco lontano la Waste Land di Eliot; e se ne Le occasioni abbiamo un percorso accidentato e impreciso, ambientato in unʼItalia sconquassata in cui emerge forte lʼambiguità di un linguaggio, quello montaliano, che permette sempre una lettura doppia e più profonda; ne La bufera abbiamo un luogo diffuso, e infatti Montale non si rivolge più a un angolo di mondo, ma alla sua complessità (tantʼè che si va dalla Siria, allʼEuropa, alle Americhe), creando quindi una visione universale dellʼuomo, un compimento di una strada definita anche dalle precedenti opere[2].
La bufera è stata scritta tra il 1940 e il 1954, è composta da sette parti, e copre storicamente la Seconda guerra mondiale e i primi anni del dopoguerra; quindi ci dà un quadro della visione del poeta di un periodo molto complesso e articolato. La cosa che stupisce è che non si ha un linguaggio diretto, la guerra non emerge come in Sereni o Ungaretti, ma viene suggerita. Cifra stilistica, come nelle opere precedenti, è lʼelenco fitto e travolgente, teso quasi allʼeccesso, nonché volto a trovare la giusta definizione di un dato evento poetico[3]. In questo elenco ci sono però sempre delle parole chiave, di solito le più complesse o desuete, che forse rendono Montale difficile da leggere nellʼimmediato, ma è proprio in questʼapparente improprietà del linguaggio che emerge la forza della parola come veicolo di significato. Anche in questo cʼè una forte aderenza con la compagnia degli uomini, nella misura in cui Montale riconosceva come il linguaggio fosse di per sé insufficiente a descrivere il reale, e allora sceglieva la via dellʼimprecisione per definire la realtà, accumulando immagini per dare una forma alla sensazione, oltre che alle idee e ai concetti intenzionali: fa cioè di una debolezza motivo di forza, sulla base dellʼunione delle parole nei versi. Non dimentichiamo però un fatto fondamentale, cioè che la poesia è animata da un segreto, ossia un misterioso fenomeno per cui i versi non sono scritti, ma vengono scritti, se non addirittura dettati per citare Dante e il suo «Amor mi detta». Da una fragilità intrinseca del linguaggio, dunque, Montale ha tratto la forza per definire alla perfezione la realtà, creando unʼespressione universale, perché non raccoglie dati filosofici, ma il quotidiano, nella sua semplicità, dove tutti siamo uniti da uno stesso proposito: lʼarmonia delle cose e dei propositi. Riuscire a dare forma a questa esigenza in un momento in cui lʼEuropa era devastata da un conflitto terribile è cosa complessa, difficile. Prendiamo questi versi:
[…] Se la forza
che guida il disco di già inciso fosse
un’altra, certo il tuo destino al mio
congiunto mostrerebbe un solco solo (p. 252)
Un destino che sarebbe di pace, se lʼuomo non fosse mosso dallʼIra, come scrive poco sopra («Il dì dellʼIra che più volte il gallo / annunciò agli spergiuri»). È evidente solo da questi pochi versi come il poeta articoli una sorta di analisi del moto umano che porta al conflitto, e lasci un messaggio in cui di certo sono riportati gli orrori di unʼepoca disgraziata, ma ne riduce gli aspetti, li condensa in unʼatmosfera di quotidiano universale («il disco di già inciso»), guidato da una donna, una musa angelica sopra analizzata, che indica la via. Il tutto viene realizzato tramite lʼaspirazione ad una comunanza tra gli uomini, ovvero lʼidea che non si è esseri scissi e separati, ma uniti, soprattutto nel dolore.
Questa fragilità interna che genera forza è presente anche in singole parole che definirei chiave, perché determinano da sole il senso intimo dellʼintera poesia. Sono tutte quelle parole di cui la maggioranza ignora il significato, gli arcaismi, che sarebbe meglio chiamare tecnicismi, dato che non sono propriamente termini desueti, ma si caratterizzano per la loro precisione; proprio dove vediamo la precisione estrema è il nucleo del senso della poesia, spesso sotto forma di “correlativo oggettivo”: il poeta vuole sempre darci una chiave per capire parte del segreto, sciogliere e alimentare insieme la suggestione. Si possono fare due esempi. Il primo esempio è tratto dalla poesia Iride (p. 247), in cui Iri di Canaan (una trasposizione di Dora Markus) non riesce a distinguere lince da soriano «fuor dellʼombra del sicomoro»; il sicomoro è un albero, ma in particolare veniva utilizzato per fabbricare la tomba dei faraoni Egizi, quindi tutto si ricollega: fuori dallʼombra della morte simbolizzata dallʼalbero, Iri non riesce a distinguere un animale feroce come la lince da un soriano, un gatto, un animale domestico. E solo la morte riesce a far capire come la lince non sia esattamente un animale da compagnia, ossia il vero e crudo esito della guerra: un chiaro riferimento allʼesaltazione del conflitto come motivo di gloria. Altro esempio sono le «ali ingrommate» della poesia Sulla colonna più alta (p. 236), che sarebbero parafrasabili in “ali macchiate di vino”: il che richiama sia al rosso del sangue, sia allʼubriacatura di un momento storico devastato e devastante. Solo questi due esempi bastano a mostrare come nelle parole ritenute più dʼostacolo, quelle di cui si salta lʼanalisi per pigrizia, si celi un fondamento imprescindibile per comprendere parte del segreto poetico, veicolando in sé un senso, una suggestione forte, una materia plasmata per farsi concetto e definire una maggiore umanità in chi legge e capisce. Soprattutto, comunque, è fondamentale la lettura dallʼinizio alla fine: La bufera e altro non è un libro da leggere a spizzichi e bocconi, perché altrimenti non se ne raccoglierebbe il senso. Piuttosto va letto nellʼinsieme, per comprendere appieno il significato di una poesia attenta alla realtà che ci circonda come raramente avviene.
Montale ha parlato di un dramma, la guerra, con la coscienza che solo riconoscendo la fragilità interiore, la debolezza insita nello stesso linguaggio, che difficilmente riesce a dire tutto, si crea quello che è stato il nostro vantaggio evolutivo: lʼarmonia sottesa nella coscienza di essere parte della stessa specie. Cosa di cui spesso ci si dimentica – e per questo ci sono i poeti, che sono il miglior memorandum per queste cose.
Note
[1] Per le citazioni faccio riferimento allʼedizione di La bufera e altro in E. Montale, Tutte le poesie, Mondadori, Milano 2007.
[2] Cfr. P. P. Pasolini, Passione e ideologia, Garzanti, Milano 2009, pp. 322-326.
[3] Tesi sostenuta dallo stesso Pasolini, vedi n. 2.