Contro la privacy


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Siamo abituati a pensare alla privacy come a un diritto che ci spetta, e che è importante difendere. Ma che fondamento ha questa idea? Cosa accadrebbe davvero se la riservatezza del privato venisse meno?

La pivacy è un idolo dei nostri tempi, e Edward Snowden è uno dei suoi profeti. Il diritto alla segretezza della sfera privata viene normalmente dato per scontato in quanto prerogativa inalienabile dell’umanità occidentale, e solo relativamente di rado l’attualità offre l’occasione di mettere la tematica della privacy al centro dell’attenzione: nel bene, per esempio a causa della recente uscita nelle sale dell’agiografia Snowden, di Oliver Stone, o nel male, per esempio a causa dell’ancora più recente annuncio che Facebook avrebbe mentito quando, all’epoca dell’acquisto di Whatsapp, sosteneva che non sarebbe stato tecnicamente possibile collegare un profilo del social network a un’utenza dell’app di messaggistica istantanea.

Quello della privacy è un argomento a proposito del quale, anche quando esso invece viene messo al centro dell’attenzione, l’acritica prostrazione al comune pregiudizio da parte delle voci che di volta in volta si sollevano è così unanime – così assurdamente unanime, se si pensa al gusto che normalmente i giornali, la televisione e internet hanno per la polemica – che mi sento in dovere di mettere una pulce nell’orecchio della collettività. Perché riteniamo di avere un diritto alla privacy?

Quello che voglio sostenere è che non è per niente ovvio che un cittadino qualsiasi abbia il diritto al segreto per quello che riguarda la sua vita privata, poiché non è ovvio nemmeno, in prima istanza, che la distinzione tra una vita pubblica e una privata sia consistentemente fondata.

Una società si basa su un sistema di regole, più o meno esplicite, e sul fatto che se non vengono rispettate intervengano dei meccanismi volti a prevenire nuove infrazioni. Al cittadino, in linea generale, conviene rispettare le regole; ma, per far sì che non sia tentato di pensare che non rispettarle gli convenga di più, le regole prescrivono pene per ogni violazione. Ovviamente il loro effetto deterrente, e con esso l’evidenza del vantaggio di rispettare le regole, è tanto maggiore quanto più il nesso colpa-punizione si avvicina a essere universale e necessario. Si parla di “certezza della pena”, e il senso è trasparente: in linea generale (anche se le eccezioni esistono) nessuno commetterebbe un crimine avendo la certezza matematica di essere scoperto e punito.

Le regole poi valgono sempre, senza alcuna distinzione tra ciò che avviene nella sfera “pubblica” e ciò che avviene in quella “privata”. Non si ha più diritto di infrangere una regola qualsiasi a casa propria di quanto se ne abbia di farlo per strada. Dal punto di vista della legge la vita pubblica e la vita privata sono una e la stessa, ed è un po’ troppo comodo esigere che la “compagnia degli uomini” ci difenda quando ne abbiamo bisogno ma ci lasci in pace, nella nostra intangibile bolla individuale, quando non abbiamo più bisogno di lei (o magari, ecco, lei vede, bisogna venirsi incontro, magari anche possiamo trarre qualche vantaggio da un suo momento di distrazione…).

Allora, qual è il fondamento del diritto alla privacy, della prerogativa che non si sappia in giro cosa accade tra le proprie mura domestiche? Cosa ha da nascondere chi si comporta bene?

Siamo talmente abituati alla difesa disperata della nostra privacy contro l’invadenza delle moderne tecnologie e dei loro manovratori, capitalisti o governanti che siano, da considerare il fatto di essere osservati come una specie di incubo. Abbiamo tutti negli occhi il Grande Fratello orwelliano, ed esso ci terrorizza.

Ma il problema del Grande Fratello di 1984 non è il fatto di tutto vedere e tutto sapere; il problema è che la legge che esso fa rispettare tutto vedendo e tutto sapendo è una legge perversa, abietta e disumana. Più in generale, il problema dell’essere osservati non sta nell’essere osservati, ma nel fatto che l’essere osservati ci impedisca di fare cose che dovremmo poter fare. Se, come in 1984, mi è proibito leggere e amare, non può stupire che io mi nasconda per leggere e amare lo stesso. Ma se la legge vieta solo quello che è davvero pericoloso per la convivenza civile (solo quello, si potrebbe dire, che è davvero immorale) allora ben vengano le telecamere di sorveglianza, ben vengano le intercettazioni telefoniche, ben venga l’apertura delle buste, cartacee o elettroniche che siano. Non dovremmo difendere la nostra privacy, ma le leggi che sanciscono le nostre libertà. Chi si comporta in modo morale in un mondo in cui ciò che non è immorale non è illegale non ha niente da nascondere.

E i mondi in cui ciò che è illegale è più di ciò che è immorale possono essere causa, ma non conseguenza della negazione della privacy. Una società che decide di sorvegliare se stessa, se è una società in cui coloro che sorvegliano sono anche coloro che sono sorvegliati (non in senso stretto, naturalmente, ma nel senso che a decidere quali comportamenti sono illegali sono gli stessi che poi devono attenersi a quelle decisioni), riduce, e non aumenta, le proprie probabilità di risolversi in una tirannia: perché ogni suo membro ha in ciò il massimo interesse. Tutt’altro discorso, ovviamente, se la decisione su legalità e illegalità, cioè il potere legislativo, è in mano a un’autorità singola e al di sopra della legge stessa, cioè nel caso in cui la sorveglianza sistematica si innesta su una società già tirannica: ma non è questo il caso delle società occidentali di oggi.

Innestandosi su una società di diritto la negazione della privacy può avere solo effetti sommamente virtuosi. Che non si possa agire illegalmente senza essere puniti fa sì che sia interesse di tutti che niente di quello che non è immorale sia illegale. Mentre oggi, invece, la legge vieta parecchi comportamenti nient’affatto dannosi per il consesso sociale, e dunque la dinamica in cui si trovano invischiate anche le persone oneste è spesso della forma: pazienza se qualcosa che è morale è illegale, tanto non mi prenderanno. Il risultato è che vengono puniti comportamenti morali intanto che comportamenti immorali restano impuniti. La certezza della pena, che ha la privacy come suo nemico più insidioso, tenderebbe a far sì che vengano puniti tutti e soli i comportamenti immorali. Il giorno in cui per gli spacciatori sarà impossibile nascondersi, l’eroina scomparirà e la marijuana sarà legale. Il giorno in cui tutto quello che passa attraverso un dato collegamento a internet sarà noto a chiunque vi sia interessato, la pirateria informatica cesserà di esistere perché la legge sul diritto d’autore sarà resa molto più aperta (per prevenire una rivoluzione o a causa di essa) ma sarà anche rispettata. Il giorno in cui tutte le telefonate saranno registrate e le registrazioni a disposizione della stampa, i politici saranno onesti perché i politici disonesti saranno in galera. E così via.

di Massimo Lancetti

CC BY-SA

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