Da un lato il lavoro dell’artista mette la sua ispirazione al seguito di alcuni modelli, dall’altro genera nuovi linguaggi espressivi e dimensioni di senso, puntando a farsi seguire dal pubblico. Con Gravity, Krzysztof Bednarski interpreta questi rapporti di mutua attrazione in gioco nel fare arte come forze di gravità.
Anche sulla scala ridotta del microcosmo delle nostre vite devono esservi delle forze di gravitazione, che ci portano a seguire certe orbite e a cadere nel campo di attrazione di certi corpi. È da questa intuizione che lo scultore polacco Krzysztof M. Bednarski muove per andare a dipanare gli intricati rapporti che legano, anche a distanza, gli individui. La sua ricerca, non potendo ovviamente trovare soluzione in una legge fisica di elegante brevità e rigore, sviluppa invece una risposta personale nella complessa e viscerale mostra Gravity.
In esposizione alla galleria d’arte contemporanea Awangarda BWA di Breslavia, in Polonia, Gravity ha tradotto la metafora cosmica di Bednarski attraverso sculture, installazioni visive e sonore a fianco di alcune performance registrate. Gli autori con i quali l’artista si pone in dialogo – e che costituiscono dei veri e propri centri di gravità per la sua ispirazione – sono Herman Melville, Joseph Conrad e Lars von Trier.
Il riferimento al Moby Dick di Melville è cruciale per un’ampia serie di sculture che rielaborano la figura originaria di un relitto di scafo rovesciato – così simile a una balena – trovato sulle rive della Vistola nell’inverno 1986-87. Come Achab, lanciatosi all’inseguimento ossessivo della famosa balena bianca, Bednarski si è imbarcato ormai da decenni nell’incessante ricerca sulle possibilità creative offerte da quella forma che lo ha ammaliato, decostruendola, ricostruendola e trasformandola tramite l’uso di materiali diversi, con diverse levigature e dimensioni.
Alcuni pezzi sono modellati in forme compatte e minimaliste che ricordano quelle di Brâncuşi, altri sono “sventrati” per mostrare un’alternanza di pieni e vuoti; in alcuni è esaltata la raffinatezza del marmo di Carrara, altri invece si stagliano in verticale sulle pareti nel loro bronzo scabroso, assumendo le sembianze imperscrutabili di maschere tribali; una delle sculture in alabastro chiaro e luminescente sembra un placido cucciolo di balena (la si può anche accarezzare!), gli intrichi scuri e nastriformi di molti altri pezzi di questa serie, al contrario, incutono quel senso di soggezione che si prova quando si ha di fronte qualcosa di atavico e insondabile.
Due installazioni permettono al visitatore di sperimentare dall’interno lo spazio simbolico dello scafo: Moby Dick Song e The Edge of Shadow (Confession). La prima è collocata nel sotterraneo della galleria, nel quale si è invitati a scendere nel completo buio, accompagnati dal suono profondo degli abissi (in realtà si tratta di una registrazione dei rumori dei metalli piegati durante la lavorazione di alcune sculture dell’artista); appena sceso l’ultimo scalino, ci si trova spiazzati nello scoprire di atterrare su un pavimento morbido e i nostri sensi vacillano, facendoci sentire come Giona nel ventre della balena.
La seconda installazione è esplicitamente connessa al romanzo di Conrad (che – vuole il caso – è anch’esso una delle storie più famose della letteratura incentrate su un seguire e su un assillo): come il capitàno protagonista del romanzo si ritrova a seguire una rotta in mare braccato da una forza oscura e soverchiante, qui siamo indotti a camminare su una passerella in legno fino ad arrivare in una sorta di baracca, insidiati da una forza di gravità che si fa improvvisamente incontrollabile. All’interno della baracca, che richiama la stiva di una barca e che traballa sotto il nostro peso come se si trovasse effettivamente in balia dei flutti, troviamo un contenitore pieno dell’acqua torbida del fiume Oder, che rischia di fuoriuscire a ogni movimento troppo brusco. Per affrontare questo percorso, quindi, siamo chiamati a ritrovare le nostre coordinate e conquistare un rinsaldato e più consapevole senso dell’equilibrio. Così, dopo aver superato la propria “linea d’ombra”, si può tornare sulla terraferma: nel nostro caso, poiché dalla cabina non vi è alcuna via d’uscita, torniamo sui nostri passi per visitare il resto della mostra.
Al tema della gravità come forza cosmica di fronte alla quale l’uomo è assolutamente impotente allude Magic cave, ispirata alla capanna rudimentale che compare nel finale del film Melancholia di Lars von Trier. Se la pellicola narra quel senso di spaesamento e di angoscia che ci assale nel momento in cui viene meno qualunque obiettivo possibile (quando, insomma, ci si ritrova senza più nulla da seguire, e rimane solo l’assillo), l’installazione rappresenta visivamente la stessa vacuità dell’azione umana di fronte un’ipotesi di annientamento. Un’inerme capanna di rami ruota, sospesa da un filo, su un mucchio di ceneri, che alludono al momento “dopo” il catastrofico esito della storia; nonostante sia manifestamente incapace di proteggere, essa dichiara tuttavia il suo valore simbolico come cornice di senso della nostra esperienza esistenziale. Ecco che Magic cave assurge così a emblema dell’arte tutta: non sono forse tutte le opere d’arte nient’altro che delle vulnerabili “capanne”, indispensabili però per permetterci di inserire le nostre vite in una narrazione che dia senso alla nostra esperienza?
E infine, proprio del valore dell’arte come dimensione produttrice di significato raccontano un gruppo di opere tra cui Mi senti? (passage), Mirror, Six hundred and seventy-eight (parallax) e Stewardess (678), che esplorano le capacità e i limiti dell’artista contemporaneo di “farsi seguire”, ovvero di far sì che l’osservatore sia attratto dal messaggio che vuole veicolare. Talvolta può succedere che il significato non riesca a raggiungerlo: l’artista teme allora di apparire tanto criptico quanto ridicolo, come un pazzo che gesticola affannosamente nel suo linguaggio privato in mezzo a una strada di Barcellona (come si vede nella registrazione di Six hundred and seventy-eight). Per questo Bednarski, con l’installazione Mi senti?, pone incessantemente la domanda, in tutte le lingue del mondo, se riusciamo a sentirlo, al fine di stabilire con il visitatore un contatto (purtroppo a senso unico) e provare dunque ad accertarsi che il suo lavoro sia stato seguito e compreso.
Ma grazie al suo potente linguaggio espressivo, il messaggio esistenziale che Bednarski ha racchiuso nello spazio dell’esposizione – come un marinaio che ripone un messaggio in una bottiglia nel mare – riesce ad arrivare chiaro e limpido.
di Ilaria Iannuzzi