Lo sviluppo dell’umanità nell’individuo

Gullalderen

di Jacopo Scionti

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Il mito delle quattro età è un topos assai ricorrente nella letteratura e nel pensiero dell’umanità: esso risponde a quell’esigenza umana di dare contorno e forma al processo di sviluppo graduale della historia e, più in generale, permette di tracciare un parallelismo tra l’uomo e la civiltà da lui creata a sua immagine e somiglianza. Vediamo, a grandi linee, di cosa si tratta.

Narra Esiodo ne Le opere e i giorni[1] che vi era un tempo in cui «gli uomini vivevano come dèi, col cuore libero da preoccupazioni, lontano dal lavoro e dal dolore. La triste vecchiaia», e, aggiungerei, la consapevolezza della morte, «non andava a visitarli e, mantenendo per tutta la vita il vigore dei piedi e delle mani, assaporavano la gioia nei banchetti al riparo da ogni male. Morivano come ci si addormenta, vinti dal sonno». Tanto nella letteratura pagana, quanto in quella cristiana dei secoli successivi, il richiamo a un’età dell’oro o all’Eden biblico rimane il modo in cui l’umanità guarda agli albori della propria esistenza proprio come l’uomo maturo pensa ai “miti” della propria infanzia.

Vi era dunque un tempo beato in cui gli uomini vivevano come bambini, privi di coscienza e quindi anche di conoscenza: la loro esistenza si consumava in un istante ed essi morivano senza averne consapevolezza, proprio come quando si cade nel sonno. Nulla, nessun pensiero nefasto giungeva a turbare la loro pacata esistenza ed essi vivevano simili ai fanciulli, privi di preoccupazioni, cullati e nutriti nel seno di Madre Natura. L’unico contatto fisico che conoscevano era quello con quest’ultima, loro madre e nutrice, senza che essa intervenisse mai contro di loro, in quanto vivevano in assoluta armonia, gli uni privi di saperi e di scienze, l’altra di motivi per cui ribellarsi.

Secondo Eschilo «le fonti della vita», che gli dèi avevano nascosto agli uomini, furono rivelate proprio a costoro da Prometeo, che venne dunque additato come responsabile delle sventure e del progressivo decadere dell’uomo nella storia fin dall’antichità. Egli infatti li risvegliò dal loro idillio primordiale, separandoli dalle leggi della loro natura, fino ad allora ancora incontaminata dalla presenza della coscienza, fautrice della téchne. Proprio come accade a un bambino, che viene risvegliato alla coscienza di se stesso da un evento che reputa traumatico[2], così anche gli uomini nel loro insieme vennero risvegliati all’intelligenza e separati dalla natura, di cui prima godevano senza mediazioni, dall’atto di Prometeo (ossia la donazione del fuoco, identificato come lo spirito della téchne).

L’umanità venne così strappata dal suo eterno presente, in cui vita e morte si fondevano in un quadro unico e spettacolare, e condannata alla maledizione e al tormento della coscienza, che le impose la necessità della menzogna e della scienza. Così dunque sottratti alla vita e condannati alla storia e al divenire, gli uomini iniziarono a capire ciò che prima solo ascoltavano, a conoscere bene ciò che prima solo vedevano e a riflettere su ciò che prima solo facevano, senza porsi domande o dubbi, né verso se stessi né verso altri loro simili. Essi smisero di pensare ingenuamente soltanto alla propria Esistenza, entrarono nel campo dell’Essere e, divenuti senza quasi saperlo i suoi pastori e custodi, edificarono la loro casa proprio sul suo terreno[3]: non fu più sufficiente la vita in sé, dono della Natura, ma divenne necessario trovarvi un senso e dunque attribuirvi un Essere mediante una téchne, che valesse la pena di far esistere e di mettere in mostra davanti agli occhi di Madre Natura. Insomma, l’umanità, divenuta grande e capace di creare l’Essere, iniziò così a rivendicare la propria indipendenza dalla madre, da cui era stata generata all’alba dei tempi.

Tutto questo avvenne inoltre grazie all’avvicinamento degli uomini: lo sviluppo graduale delle prime comunità li portò sempre più a un maggiore contatto fisico e mentale, il che, per necessità, li spinse a darsi regole e ad attribuirsi delle “normalità”. Queste, sparse sui capi degli uomini proprio come catene su ghirlande di fiori[4], li imprigionarono in una serie infinita di usanze e costumi, nella cui osservanza l’uomo perde il se stesso naturale e acquisisce consapevolezza del proprio senso, ovvero del suo essere qui e ora nel mondo con altri enti simili a lui.

Anche per Hegel lo sviluppo dello Spirito Universale (Geist) è graduale e viaggia attraverso una serie di momenti, positivi e negativi, che, intrecciandosi tra loro, concorrono alla realizzazione di una dialettica universale, alla sintesi della quale l’umanità sarà giunta a piena consapevolezza di se stessa. In questa interpretazione geniale, il positivo e il negativo non sono altro che flatus vocis, ossia distinzioni linguistiche di origine umana volte a delineare un processo in realtà del tutto unitario: si tratta infatti nient’altro che di tesi e antitesi, dal cui gioco dialettico ha origine lo sviluppo graduale dell’umanità. La prospettiva hegeliana si basa sull’acquisizione dell’idea per cui il negativo è anch’esso un momento del positivo, contemporaneamente superato e conservato in esso, cosicché l’uno concorre alla piena realizzazione dell’altro, ed entrambi partecipano del medesimo processo di avanzamento dell’organismo di cui sono fondamento ontologico (nel senso che concorrono alla mutevolezza dell’essere, che altrimenti sarebbe statico, nel suo temporale divenire esistenziale).

Tutto ciò, si potrebbe dire, vale anche per il singolo individuo, perché la storia dell’umanità è comprensibile e analizzabile come se fosse la storia di ogni singolo uomo che la compone: la vita è per entrambi un percorso graduale verso una completa acquisizione della consapevolezza di sé. Da questa prospettiva, è fin troppo evidente il parallelismo instaurabile tra lo sviluppo graduale dell’uomo e quello dell’umanità. Una volta sbalzati fuori dall’Eden, ossia dalla loro naturale infanzia pienamente realizzata nell’epoca classica, gli uomini vissero il Medioevo: secondo una lettura possibile, senso di perdizione, abbandono a Dio (l’Altro per sé da sé) e ricerca di se stessi sono i topoi con cui viene più comunemente indicato, anche se non fu certamente privo di aspetti di grande sviluppo tecnico e di crescita intellettuale. Essi possono richiamare per l’appunto ciò che accade a un adolescente il quale, avendo persa la sua naturale trasparenza (topos dell’infanzia) nell’evento traumatico (che invece per l’umanità è additabile nella caduta di Roma), vive spaesato, senza più sapere chi è e che cosa farà della propria Esistenza, nel suo difficile percorso adolescenziale.

Passando attraverso tutte le rivoluzioni e le scoperte, successive ai “secoli bui” del Medioevo (anche se del tutto bui non sono visto che spianarono il terreno proprio a tali successive grandi scoperte e invenzioni), l’umanità trova il momento del suo massimo vigore e produttività, quello che a buona ragione potremmo associare alla gioventù: la scienza e la tecnica, prodotti della coscienza, regnano sovrane in questo tempo, in cui la produttività e la vitalità hanno raggiunto il loro massimo grado di espressione. Ma, d’altro canto, tale condizione attuale dell’umanità implica inevitabilmente un richiamo alla responsabilità e al rispetto, valori fondamentali ai quali, come spesso accade, deve essere ricondotto anche il giovane uomo: è dunque evidente come dalla comprensione antropologica dell’uomo nel suo insieme e del suo sviluppo graduale, dipenda anche il buon controllo del percorso umano dello Spirito Universale dell’umanità di cui parlava Hegel.

Non è più pensabile, arrivati a questo punto, agire senza assumere una certa responsabilità: ritengo che siamo giunti oggi proprio al punto di un giovane uomo, che, a un tratto e avendo agito bene, si trova a capo di un vascello, sospinto verso acque sconosciute a tutta velocità, del quale deve saper mantenere la rotta e il controllo. La responsabilità è il nuovo valore del quale l’umanità ormai adulta deve assumersi il compito; la felicità e il dovere appartengono rispettivamente all’infanzia e all’adolescenza dell’umanità, ossia alla Classicità e al Medioevo e rappresentano un qualcosa da lasciare indietro, pur conservandolo in sé, proprio come il movimento dialettico di Hegel ci insegna. Un ritorno a essi è ormai impensabile, in quanto la trasparenza originaria è stata irrimediabilmente perduta. Sogni e speranze sono oggi ridotti al grado delle utopie: il tempo della Classicità appartiene al passato, mentre noi, rivolti al futuro, possiamo solo volgere lo sguardo al primo con quella stessa nostalgia con cui ogni uomo pensa alla propria infanzia e alla purezza perduta che a essa era congenita.

Quello che oggi l’uomo è chiamato a fare, è di assumere la responsabilità su di sé verso se stesso, verso gli altri e, in generale, il mondo; quest’ultimo, in particolare, è la sua casa, e dal rispetto umano dipenderà il modo in cui esso funzionerà e si comporterà in futuro. L’uomo deve capire che il processo di crescita graduale del magnifico organismo, a cui appartiene, non è completo e che egli potrà abitare il pianeta azzurro ancora per molti lunghi anni, passando attraverso molte altre ere, se formerà con saggezza il suo comportamento e se dirigerà i propri sforzi verso il Bene Comune, mettendo da parte gli egoismi e le rivalità tiranniche, nello stesso modo in cui l’individuo, per diventare un uomo adulto, deve lasciarsi alle spalle i capricci adolescenziali. L’obiettivo finale è, come si può ben intendere, quello che ogni uomo anche possiede come unica, vera, somma meta, cioè la piena consapevolezza di sé.

Giusto per accennare a un tema a me caro, mi sembra che tutto ciò che è sempre mancato alle utopie umane sia il concetto di assunzione di responsabilità: le utopie sono per l’appunto tali, in quanto non hanno mai posto in essere tale concetto ma si sono solo limitate a (rap)presentarlo; ispirandosi solo alla bontà o alla semplicità dell’uomo, hanno quasi sempre ignorato il fatto che la sua natura non può essere presentata gratuitamente come buona e semplice. Per tale motivo, imbrigliate nella rappresentazione, esse sono sempre state rivolte al passato, all’Eden appunto, o al futuro, ovvero a un ipotetico regno dei cieli successivo al Giudizio Universale. Ma mai al presente. E come tali, ritengo, hanno sempre ignorato il valore fondamentale che spetta di diritto e di dovere all’uomo, considerato sub specie temporis (nel suo divenire storico), per sussistere in autonomia e libertà: la responsabilità. Basta questa per spingere gli uomini ad agire correttamente e onestamente gli uni verso gli altri e, di conseguenza, a sviluppare una società di uomini buoni e cooperatori, in cui ognuno sia capo di se stesso e agisca nel rispetto degli altri e della natura, vivendo secondo il principio per cui ogni opera e attività siano lecite fintantoché non danneggino il mondo della vita altrui, ma restino confinate solo nel proprio.

Posti questi fondamenti, si può dire a mio avviso che il compito più importante dell’umanità spetta ora al filosofo. Quello, se portato ben a termine, renderà questo degno di ammirazione e di lode. Educare l’umanità ad assumere la propria responsabilità è il nuovo compito filosofico del XXI secolo. Il filosofo contemporaneo avrà fallito se l’umanità cadrà in uno sviluppo graduale negativo, verso la degenerazione (visto che tutto, generazione e corruzione, rientra nel medesimo sviluppo graduale inarrestabile)[5], obliando se stessa e lasciandosi trascinare in un’apatica inoperosità, del tutto fiaccata da troppo potere che si scoprirà incapace di gestire. Avrà invece vinto e potrà affermarsi con un sorriso sulle labbra, proprio come l’Oltreuomo nietzscheano comparso al sorgere della luce del mondo, se renderà l’umanità consapevole di sé e dei propri limiti, nonché potenzialità, conducendola sulla strada del superamento dell’uomo, filo sottile tra la Bestia e il Nuovo; aprirà così infine le porte dell’umanità all’età matura della storia dello Spirito Universale, diretta verso la più piena realizzazione di sé.

Note

[1] Cfr. Esiodo, Le opere e i giorni, introduzione di W. Jaeger, Rizzoli Editore, Milano, 1979, p. 101 (vv. 106-126).

[2] Cfr. J. Starobinski, Jean-Jacques Rousseau. La trasparenza e l’ostacolo, tr. it. di R. Albertini, Il Mulino, Bologna 1989. In questi saggi l’autore ben evidenzia il modo in cui avviene il passaggio dall’infanzia all’adolescenza: un evento traumatico, un ostacolo, spesso a sfondo sessuale, impone l’abbandono della trasparenza originaria e naturale con cui il bambino, privo di coscienza, nutre il suo essere nel mondo. Si tratta, in poche parole, di quel modo di porsi, ingenuo e senza problemi, di fronte alla realtà e agli altri uomini che caratterizza il comportamento del bambino e che, per analogia, ritengo di poter associare al comportamento dell’umanità dell’età dell’oro: priva di coscienza, essa agiva e viveva in modo trasparente, senza cioè che nulla si frapponesse tra sé e la Natura e dunque non aveva bisogno di ricorrere alla tecnica né alla scienza per sopperire alle sue mancanze, delle quali, inoltre, non aveva assolutamente la minima consapevolezza, proprio come accade per i bambini, a cui basta la loro madre.

[3] Per un maggiore approfondimento della questione ontologica di cui si fa qui menzione, cfr. M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1995.

[4] Cfr. J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, a cura di R. Gatti, Rizzoli, Milano 2005. Ho voluto ribaltare la metafora poiché, a mio avviso, le “normalità” sono le vere catene che cingono, soffocando come serpenti, le ghirlande di fiori, ossia i capi degli uomini, in origine immersi nella naturalità della loro esistenza immediata.

[5] Hegel, nella Prefazione de La fenomenologia dello spirito, delinea molto bene il modo in cui negatività e positività, generazione e corruzione, siano parte del medesimo processo di sviluppo graduale dello spirito universale (Geist) nel corso della storia che, nell’ottica del Geist stesso, è vissuta come un eterno presente. Il tempo, inteso come successione di istanti in divenire in cui l’uno cade nel passato per lasciare il posto al successivo, esiste solo a livello degli spiriti individuali. Nell’eterno presente dello sviluppo graduale dell’umanità non esiste positivo o negativo, che sono invece solo flatus vocis, ma un unico processo di progressione dialettica, il cui culmine supremo, per Hegel, sarà la piena consapevolezza del Geist verso se stesso.

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