N° 3 | La sfida di un sassofono

di John De Martino

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La potenza di un grande musicista non consiste di sola tecnica o talento, ma anche nella scelta dei mezzi espressivi: fra tanti strumenti e generi a disposizione. Inimitabile, in ciò, l’ascesa musicale del sassofonista Wayne Shorter e del suo personale fatto armonico.


L’esagramma numero trentaquattro mette in luce innanzitutto una determinata situazione, sulla quale poter successivamente trarre le dovute nonché solite considerazioni qualitative. Questa volta il caso, la nostra estrazione, mette il soggetto di fronte ad un grande ostacolo, un’impresa di spessore che dà all’individuo la possibilità di esprimere la propria potenza, intraprendenza, competenza. E’ altrettanto importante, tuttavia, non lasciarsi abbandonare dall’autocompiacimento, mantenere una sorta di cognizione del reale al di là delle proprie attitudini, evitando così di cadere dalle stelle alle stalle, annebbiati dalla ricerca dell’esatto opposto.

A prescindere dal genere, dalla quantità di persone presenti, dalla formalità della situazione e tanto altro, in un ambito come quello musicale, la grande impresa da intraprendere è ardua, offuscata, impervia, buia, ma è pur sempre una: costruire qualcosa di piacevole e possibilmente interessante all’orecchio dell’ascoltatore. Le vie per poter raggiungere questo incredibile risultato sono molteplici: questa molteplicità è dovuta alla vasta gamma di strumenti musicali esistenti, all’altrettanto vasta gamma di generi musicali proponibili, ma anche alla variabile tipologia di esposizione musicale, che può essere sia in forma esecutivo pratica sullo strumento, ma anche in forma principalmente scritta, da proporre o suonare con eventuali musicisti. E’ proprio riguardo questa modalità di espressione artistica che risulta possibile effettuare un ragionamento figlio dei saperi dell’I King.

Un grandissimo numero di tipi di musica, eccezion fatta per le moderne improvvisazioni totali o radicali jazzistiche, oltre ai generi provenienti da culture che tramandano informazioni oralmente ed alcune pagine di rock e pop (stiamo bazzicando dunque, a grandi linee, il campo della musica classica e moderna occidentale, ma non solo) nasce a partire da un foglio, un pentagramma. La scrittura su partitura, nonostante il suo ridimensionamento dovuto al successo della musica leggera del secondo novecento facilmente trasmissibile oralmente, rappresenta una delle più intense possibilità espressive possibili. La sua infinita personalizzazione, questo spazio galattico di possibilità concessoci dal biancore del foglio, permette di considerare una tale attività come una mastodontica impresa dalle numerose possibili conseguenze artistiche.

Poiché si tratti di una pratica che ha profondamente a che fare con le componenti più sensibili dell’essere umano, lo stesso essere umano che si ritrova con il foglio davanti deve avere chiara la percezione di ogni singola emozione da tradurre in note. Una grande impresa, dunque, non è soltanto rappresentata da l’inventare melodie ed armonie dal vuoto, ma quella di riuscire a far trasparire un messaggio chiaro, possibilmente semplice, anche non necessariamente roseo, ma inequivocabile e, ovviamente, piacevole all’udito. Colui che davvero riesce a raggiungere questo altissimo grado comunicativo è il compositore che non solo costruisce, non solo comunica, ma arriva a rompere gli schemi stilistici dell’epoca in cui vive: per alcuni, alcune stelle, l’obiettivo sta nel raggiungere gli obiettivi appena sopracitati, mescolando le carte che stanno alla base, scombinando a proprio gusto le fondamenta conseguendo ugualmente un ottimo risultato personale.

L’I King, però, ha ben saldi i piedi per terra e lancia un monito di grande interesse. È estremamente importante conoscere i mezzi, i materiali, avere le competenze quanto meno tecniche affinchè sia nelle mani dell’individuo la sapienza di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato (in musica potremmo più precisamente dire ciò che l’orecchio percepisce per consonante da ciò che risulta ambiguo, stonato, dissonante). Si tratta di avere interiorizzato una visione a trecentosessanta gradi, necessaria per non essere troppo sicuri di sé e conoscere il momento in cui potere o non potere agire in tale senso; una forma di saggezza utile per non inciampare in un’opera impropria, bensì rappresentarsi senza aprire bocca.

Wayne Shorter (1933), sassofonista e compositore americano di origini afro cubane, può rappresentare in maniera estremamente nitida i temi esposti fino ad ora. La sua carriera racconta un’incredibile crescita costante e chiarezza d’intenti, che lo hanno portato a raggiungere vette stilistiche, musicali e compositive tra le più prestigiose del panorama jazzistico e non solo. Il suo primo grande ingaggio arriva nel 1958 quando viene chiamato a sostituire il tenorista Hank Mobley (1930-1986) nel celeberrimo ensemble ‘Art Blakey and the Jazz Messengers’ dove militerà per qualche anno, diventandone inoltre direttore musicale, occupandosi quindi degli arrangiamenti. Qui, il suo modo di suonare è tecnico, di grande talento: egli, nei soli, non ha assolutamente paura di riempire lo spazio a sua disposizione con una rapida serie di note che vanno a pescare dall’ascolto e studio del Bebop, tenendo sempre conto dell’estrazione HardBop di cui il complesso è pioniere, senza mai oscurare un suono che rimarrà sempre riconoscibile in tutti i suoi grandi progetti. Shorter cresce molto in quel periodo, tanto che il successivo ingaggio è nel 1964 con il geniale secondo quintetto di Miles Davis (1926-1991), con il quale scriverà pagine di grandissimo spessore artistico, iniziando a comporre brani in un’ottica incredibilmente moderna per l’epoca, i quali lo porteranno a cambiare anche il proprio modo di suonare, molto meno torrenziale e più selezionato. Questo quintetto, per merito di una nuova visione dell’organizzazione, dello stile, dell’impareggiabile dialogo tra gli interpreti (Interplay), acuiti dal genio di Davis, apre una prateria di possibilità per la vena creativa di Shorter. Tale complesso racchiudeva una fucina di talenti di una raffinatezza impressionante: alla tromba, l’ideatore Davis, Shorter al sassofono contralto, Herbie Hancock (1940) al piano, Ron Carter (1937) al contrabbasso e il giovanissimo, appena maggiorenne all’epoca, Tony Williams (1945-1997) alla batteria. Il suo terzo grande impegno come sassofonista arrangiatore e compositore arriva nel 1971 quando riceve da Joe Zawinul (1932-2007) la proposta di fondare il celeberrimo complesso Jazz Fusion “Weather Report”; in tale gruppo collaborerà con musicisti come Miroslav Vitous (1947), Airto Moreira (1941), Jaco Pastorius (1951-1987) e Peter Erskine (1954). È dunque con l’arrivo degli anni sessanta che Wayne Shorter riesce a raggiungere una tale qualità nella composizione musicale, tanto da riuscire a soddisfare a pieno anche il tema che l’I King ci porta ora all’attenzione.

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Ana MariaWayne Shorter, Native Dancer, 1964.

Il suo approccio alla scrittura, che lo renderà e lo rende tutt’ora uno dei più sofisticati compositori di Jazz, nasce da una solidissima conoscenza degli stili, delle regole teoriche ed armoniche, dello strumento, che gli hanno permesso di interiorizzare e successivamente uscire completamente da molti di questi dettami. Se si analizzano con attenzione i movimenti armonici dei brani da lui composti dagli anni sessanta in poi, si può facilmente notare un’eccezionale liricità nelle melodie, accompagnate da un altrettanto incredibile scelta invidiabilmente personale del fatto armonico. L’elemento comune di tutte queste sue composizioni è rappresentato da un quasi totale rifiuto dei movimenti armonici standard (non a caso i celebri standard jazz): possiamo trovare composizioni come Speak No Evil, Fee-Fi-Fo-Fum, Iris, dove l’elemento che spicca è la scelta consapevolmente lirica degli accordi, che complicano il lavoro del solista ma al tempo stesso gli concedono delle opportunità espressive estremamente proprie della penna di Shorter; altri brani, come Ana Maria, Witch Hunt, Yes And No, aprono ulteriori spazi di possibilità muovendosi su più centri tonali, legati indicativamente ad una scala di riferimento (che lo stesso compositore, quando improvvisa, non segue alla lettera) ma che fanno muovere il brano quasi come fosse una tavolozza di colori che modifica gamma ogni tot misure.

Il lavoro del sassofonista di Newark, città a sud est del New Jersey, dà al Libro dei Mutamenti un esempio musicale di spessore tale da permetterci di considerare la sua carriera artistica, ancora attiva, come un grande obiettivo raggiunto, un profondo affinare la propria personalità al proprio mestiere. I brani di Wayne Shorter insegnano al mondo come sia possibile uscire dagli schemi con un taglio personale estremamente forte. In un’epoca in cui la musica suonata è sempre più spesso un revival, un’esecuzione mai pareggiabile all’originale, la grande impresa di questo musicista trasforma egli stesso in un punto di riferimento, e la musica stessa in un ulteriore dimostrazione di arte totalizzante.


Bibliografia:

  • Mark Levine, The Jazz Theory Book, , Curci, 2009.
  • George Russell, The Lydian Chromatic Concept, Concept Publishing Company, 2001.

Discografia:

  • Art Blakey and the Jazz Messengers, Mosaic, Blue note records, 1961.
  • Wayne Shorter, Night Dreamer, Blue note records, 1964.
  • Wayne Shorter, Speak No Evil, Blue note records, 1965.
  • Wayne Shorter, Adam’s Apple, Blue note records, 1965.
  • Miles Davis Quintet, Miles Smiles, Columbia records, 1966.
  • Weather Report, 8:30, Columbia records, 1979.

Autore

  • Studia batteria jazz alla Civica di Milano. È un musicista nato, anche se per capirlo ha dovuto studiare per un anno filosofia. Ora vive praticamente nel suo box, dove si esercita e invita gli amici musicisti.

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