Scordatura

Pietro Faustini nasce tra le montagne del Trentino e studia a Bologna. Da sempre amante della natura e delle cose incomprensibili. Scrive per chiarirsi le idee e per confonderle agli altri. Quando fa musica si sente un giornalista, quando scrive si sente un musicista, quando fa il giornalista si sente uno che fa un mestiere difficile, ma che è sempre meglio di lavorare

Il sipario è stato tirato, non ero nemmeno a metà esecuzione.
«Non si può massacrare Tarrega!» mi disse il direttore artistico, piantandomisi davanti. Lo sentivo puzzare di sudore nervoso, il panciotto gonfio che quasi mi toccava il naso.
«Lo so» risposi spostando la testa di lato, provando a sbirciare tra le pieghe del sipario. Mi pizzicò le corde e ritrasse subito la mano, come se avesse toccato per sbaglio un frutto ammuffito. Il viso grasso gli si digrignò ancor di più, aveva i baffi umidi della saliva che mi sputacchiava contro. Non si era lavato i denti prima di scendere a teatro. «Schifoso, hai suonato scordato tutto il tempo».
«Lo so» continuai con tono robotico, ancora imbambolato. Intanto riponevo la chitarra nel fodero, rigido e rugoso come le mani del direttore che mi strattonava l’abito. Cercavo di sbirciare attraverso i drappeggi del sipario infiammato.
«Giuro su mia madre, Fansini, non troverai più uno stronzo che ti faccia suonare le tue merdate! Domattina farò il giro di tutti gli stabili, stanne certo, anche se non penso ce ne sarà bisogno, dopo stasera». Aveva visto le file d’onore alzarsi e andarsene, i critici con le cartelle chiuse e le signore con le mani sulle orecchie. Le avrebbe inseguite volentieri, aggrappandosi alle pellicce impregnate di J’adore. Non l’aveva fatto solamente per non insultare le più pazienti, che avevano aspettato la fine di tutto per gridare al diavolo. Io avevo avuto le sue stesse visioni, ma con la coda dell’occhio. Avevo tenuto lo sguardo fisso sul loggione.
A vivere come musicista si ricevono meno complimenti di quelli che ci si aspetta agli esordi, la fuga delle pellicce erano i più apprezzati che mi avessero fatto. Gli insulti di Marcosi non riuscivano a togliermi le fossette. Da mentecatto e provocatore, diceva lui.
Quando mi hanno tirato giù dal palco ho capito che era finita. Avrebbero scritto quel che volevano: che ero depresso e per questo ubriacato, che ero uscito di senno e in polemica con Marcosi, che sperimentavo la dodecafonia. In realtà io avevo solo guardato in piccionaia, e tanto mi era bastato per tornare il ragazzo che si nascondeva tra gli albicocchi. Tanto mi era bastato per stufarmi dei vent’anni nell’orchestra Haydn, che mai sembravano stufarmi. La migliore di tutto il Tirolo, concerti fino a Bratislava e grappa gratis ovunque andassi. Mi lasciavano esibire da solo, giusto qualche serata per riempire il calendario e garantire gli spettacoli minimi agli stabili. Dopo quella sera, l’orchestra avrebbe rimosso le chitarre e suonato sempre all’unisono.
Darsi da fare aveva avuto un senso. Andarsene a Vienna mentre gli altri si prendevano l’assegno di disoccupazione in Borgogna. Vendemmiavano per due settimane e se ne stavano in tenda per due mesi. Nelle campagne di rugiada a scoparsi in mezzo agli acini caduti, gli stivaloni di gomma persi nei canaletti.
Aveva avuto un senso mettersi i baffi a manubrio e fare le trazioni, imparare a suonare col poggiapiedi. Avere il pollice d’arpia. Marcosi impazzì del tutto quando mi vide sputare l’unghia in terra. Un musicista non avrebbe mai abbandonato il palco così in fretta, nemmeno sotto i pomodori. «Se gli resto appresso un altro minuto lo ammazzo» disse a qualcuno dietro le quinte. Dopo di che non si vide più per tutta la notte, l’ultima notte a teatro.
Aveva avuto un senso imbracciare la prima Yamaha nera che avessi visto, mettersi a frignare per averla e poi averla. Consumarla e farsi venire i calli. Polpastrelli massacrati senza pollastrelle. Avevo fatto bene a ritornarci dopo l’esperienza elettrica. Licenziato Satriani e tutti i virtuosi, schiavizzati da sé stessi per sé stessi.
Aveva avuto un senso andare da un maestro. Frequentavo le scuole medie, appena finite le lezioni la tracolla tesa per non rovinarmi la postura. Mi fiondavo nelle campagne che non erano della Borgogna e ci crescevano soltanto sentimenti di bambini. Nessun assegno di disoccupazione e nessun picchettare la tenda. Ogni martedì lezione di chitarra, alle due in punto. Il maestro, barbuto e perennemente rivestito di flanelle a scacchi, insegnava in un istituto tecnico e arrivava sempre dopo di me.
Spesso lo fissavo mangiare. Piatti di pasta che apparivano più buoni dei miei, il profumo del pecorino m’illudeva di non aver pranzato. Comunque, non gli chiedevo mai una forchettata. Portava le Crocs fluorescenti, coi calzetti di lana spessa che facevano cucù dai buchetti. Aveva un odore animalesco, di un’antica violenza che non sa più spaventare. Toncava1 i crostoni integrali nel sugo e già andavo a preparami nello stanzino musicale.
Tutti libroni bellissimi: cataloghi fotografici in bianco e nero, manuali di biologia inventata e un’intera edizione numerata. Mai sfogliati ma una perfetta atmosfera intellettuale. Un impianto clamoroso, i jazzisti che conobbi anni dopo ne avevano solo imitazioni da discount. Perdevo non so quante ore a contargli i dischi e a impararne a memoria l’ordine, ma solo di alcuni scomparti. Un amplificatore Fender da 1000 watt. Una volta mi fece sentire come suonava, portandolo quasi al massimo della prestazione (al massimo reale potevamo romperci i timpani). Suonò un riff scontatissimo ma ero giovane. Mi concentrai soltanto sul rumore che mi scuoteva tutta la pancia. Le forchettate del passato nel mare in burrasca. Nelle stanze insonorizzate di Aushwitz, dicono che dopo qualche minuto puoi iniziare a sentire il sangue scorrere, le viscere che si contorcono per il disagio. Lì non era possibile sentire un bel nulla se non il riff sparato, letteralmente a mille, eppure le mie viscere tremavano come budini lanciati in discesa. Senza rumore ma con un movimento infernale. I rockettari che conobbi poi non sapevano nemmeno che esistesse un amplificatore simile. Non ho mai capito perché avessimo concordato un’ora del genere, scomoda per entrambi.
La prima volta che vidi Luna sulle foglie secche non mi posi più nessun problema. Camminava scalza e lo strato di morte marrone pareva rifiorire, quando avrebbe dovuto spezzarsi gridando. La prima volta mi aveva guardato con gli occhi azzurrissimi e le lentiggini timide.
«Tu sei il nuovo chitarrista, vero?». Avevo la tracolla che sforava la mia figura, una bara in spalla al becchino. «Io sono Luna, mio padre è ancora a scuola».
Da quel giorno correvo ancora più spedito per i campi. Se la intravedevo nel cortile, presa a giocare con uno dei due cagnoni neri che mi terrorizzavano, mi fermavo sotto gli albicocchi a guardarla. Con la sua gentilezza domava le belve gigantesche e le faceva muovere a comando. Spesso indossava un abitino bianco rubato alle Grazie o alle Madonne di ogni credo, portandosi dietro un alone che rischiarava il circostante. Le apparizioni della modernità capitano soltanto ai bambini o agli ignoranti. Io restavo imbambolato fino a che non vedevo sopraggiungere l’auto del maestro. Doveva trovare magico il tempismo dei miei arrivi.
Se invece non c’erano bestie in vista, suonavo il campanello anche con mezz’ora d’anticipo e mi inventavo certe conversazioni improbabili per poterla divertire. In casa non indossava l’abito sacro, mi chiedevo se si cambiasse o se si trasformasse una volta varcata la porta.
«Non ti vedo mai a scuola, non esci a giocare con gli altri?». Qualsiasi cosa le chiedessi la prima reazione era un sorriso, doveva trovarmi simpatico, poi un piccolo silenzio imbarazzato.
«Io non vengo a scuola con te, non lo sai? Vado al coreutico, in centro». Non ricordo nemmeno se lo sapessi oppure no, ma la risposta non era importante. Era importante che rispondesse, che non corresse a scatenarmi addosso i cani. Che non mi facesse marcire gli albicocchi e non mi spedisse i fulmini giù per le campagne.
In primavera miglioravo poco con gli arpeggi. Luna sempre in cortile, correre dietro le fiere e riflettersi nella piscina. Io riflesso nella porta finestra, e ancora indietro gli occhiali del maestro. Un pesce rinchiuso in un triplice acquario.
Poi Luna dovette trasferirsi con la madre e il giardino sfiorì nel giro di due settimane. Tornai dal maestro soltanto un paio di volte, i cani nemmeno si alzavano per abbaiarmi. Uno si era tirato nella piscina, si era gonfiato d’acqua e pareva un peloso enorme pesce palla ancorato al fondo della vasca. L’altro dormiva, i peli tutti bianchi come chi diventa calvo all’improvviso.
Gli albicocchi erano stati tranciati da un fulmine, il temporale aveva riempito di fango tutto il sentiero. Fiori candidi a galleggiare nella melma. Al maestro era tornato fuori l’odore della violenza, quella vera e presente. Pronta a graffiarti se stoni o a cavarti i timpani se chiedi una cover sbagliata. Mia madre decise che non ci sarei più andato. Avevo imparato a volergli bene, ma non mi sentivo più a mio agio nello stanzone artistico.
Iniziai a solfeggiare e tornai alla Yamaha nera. Entrai nel coro delle voci bianche, quando ancora non ero un baritono. Poi i flamenchi e basta tapping, poi le unghie e basta plettri. Poi la Haydn e i tour fino a Bratislava, fino alle ville di Cecco Beppe. Poi Marcosi e i teatri giusti, gli spettacoli in solitaria.
Poi vidi un vestito bianco in piccionaia, e mi chiesi cosa avesse fatto per vent’anni.

  1. “Toncare” dal dialetto trentino “immergere”

di Pietro Faustini

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