Regole di continenza culinaria monastica

Siamo spontaneamente portati a pensare che l’uomo medievale fosse un soggetto mosso unicamente dalle necessità, costretto in una vita costantemente assediata dall’indigenza, in cui ogni arbitrio è subordinato alle urgenze della sopravvivenza che negano la possibilità di qualsivoglia gusto personale.
La realtà è ovviamente un’altra, e soprattutto la realtà della tavola.
Le differenze economiche, così come quelle di censo e di ceto, non furono le uniche ragioni per le quali il commensale era portato ad arrangiarsi in nuove strategie culinarie, anzi spesso queste erano il frutto di deliberate scelte di privazione che facevano capo più alle ragioni dello spirito che a quelle della miseria.
Se nell’orizzonte arabo-giudaico i divieti e le restrizioni alimentari sono dettati da sentenze che descrivono l’animale attraverso valori oggettivi di purezza o impurità, nel cristianesimo (che pone l’attenzione sulle scelte del fedele) si compie uno spostamento tra «soggetto e oggetto, dal cibo all’uomo» (Montanari), dove l’astinenza da un particolare gruppo di alimenti diventa un esperienza che l’individuo compie nel silenzio intimo della preghiera in un gesto di spontanea (anche se ben raccomandata) penitenza.
Il digiuno nel cristianesimo è una pratica di purificazione dove si emula l’ascetismo di Cristo nel deserto, che al motto di “non di solo pane vive l’uomo” ricerca sostentamento non nella materia ma nella parola che nutre, la parola di Dio. Così digiunando, Cristo crea in sé il vuoto, compiendo un’azione redentiva contraria al gesto di riempimento attraverso il quale Adamo introdusse il peccato nel corpo. Il digiuno cristiano si conferma essere una pratica catartica in vista di momenti in cui ci si accosta alla santità (tutt’ora il cristiano più ortodosso non si nutre prima di ricevere l’eucarestia in modo da lasciare “libera” la strada alla particola).
Prima di entrare nel vivo della descrizione del menu del buon cristiano medievale è bene ricordare che queste pratiche di astinenza, nel momento in cui vengono accolte e legiferate assumono un valore che va oltre alla semplice penitenza ma che funge da collante per un’identità non solo religiosa, ma sociale e politica.
L’esempio perfetto è quello di Carlo Magno che ordinando la cristianizzazione forzata dei sassoni impone la pena di morte per coloro che non rispettano la Quaresima.
Con queste azioni l’imperatore non sta esigendo una purificazione dei suoi sudditi bensì una loro sudditanza politica. La volontà di coesione però non deve farci pensare che ci fosse un’idea liberale di uguaglianza, al contrario la società medievale è perfettamente concorde nell’evidenziare le differenze tra gli uomini e ad assegnare a ogni qualità il suo corrispettivo nutrimento. L’alimento che rende sano un contadino potrebbe essere nocivo per un re e quello che intossica un principe potrebbe invece rafforzare il monaco. Addirittura tra i chierici vigevano solide distinzioni dietetiche tra i membri della gerarchia ecclesiastica, che oltre a esercitare una professione spirituale avevano anche una vocazione politica, e gli appartenenti a ordini monastici che invece erano consacrati alla povertà. Se i primi erano tenuti a mangiare in abbondanza come i principi e i regnanti, carne compresa, per gli ultimi era consigliata una dieta magra a base di pesce che non eccedesse nelle quantità e non avvicinasse neanche lontanamente al vizio della gola.
Alla luce di queste conclusioni, ai monaci medievali sorse un’ovvia domanda: se il cibo è quella zavorra che ci ancora alla mondanità, perché un Dio creatore ne ha reso indispensabile la fruizione. Per l’asceta il discorso è particolarmente insidioso in quanto lo scomodo momento dell’alimentazione fonde la necessità al piacere tentando più volte al giorno anche l’uomo più devoto. A questo Gregorio Magno risponderà acutamente che “il vizio non sta nel cibo ma nell’appetito”, spostando quindi l’attenzione dalla fame alle bramosie del palato.
Se come abbiamo promesso bisogna parlare di rinunce, non possiamo non nominare la protagonista di queste auto privazioni: la carne. Perché questa diffidenza? banalmente la carne va cacciata e la caccia oltre a essere l’attività del politico, culminava con un’uccisione che poco aveva a che fare con quel mito edenico vegetariano a cui per primi i padri del deserto tendevano a rifarsi, ma era una simbolica dichiarazione di potere e virilità attraverso la quale il sovrano dava sfoggio della sua forza esibendone i risultati attraverso un sontuoso banchetto.
La carne è perciò un cibo da regnanti, un cibo godurioso per ricchi e il monaco che invece ha scelto tutt’altra vita è bene se ne astenga. Bisogna però dire che non tutte le carni sono considerate allo stesso modo e non tutti gli animali si trovano sullo stesso piano, ad esempio nella maggior parte dei monasteri europei è netta la distinzione tra i volatili Pulli, che alcuni conventi ritengono essere cibo degno di una mensa pia in virtù della loro scarsità di sangue, e le Carnes, gli animali a quattro zampe in cui invece i succhi abbondano, mentre per ultimo il pesce è quasi sempre tollerato forse in virtù della sua forte simbologia cristologica. Come se non bastasse, la carne secondo la medicina galenica è un elemento caldo, che “fa sangue” e che quindi è direttamente collegato alla libido.
Scrive Isidoro di Siviglia: «Le carni non sono vietate in quanto cattive ma perché il loro consumo genera lussuria». Le limitazioni a cui la vita monastica andava incontro non erano sempre le stesse, a partire dalla tipologia di ordine alla quale si apparteneva. I francescani ad esempio non avevano grandi ristrettezze alimentari poiché in quanto ordine mendicante tendevano perlomeno a non essere schizzinosi sulla tipologia di cibo che veniva loro donato in carità.
Nonostante ci fossero come già accennato delle regole generali, ogni convento era libero di interpretarle in maniera più o meno rigida. Per alcuni anche certe tipologie di pesci particolarmente ricchi di sangue la cui fibra ricordava quella della carne erano da ritenersi più adeguati ai giorni di grasso, ma sorprendentemente svariati animali usi frequentare le zone acquatiche come i castori, oche ed anatre venivano inseriti nella stessa categoria dei pesci e perciò mangiati senza remore anche nei giorni di magro. Dopo le attenzioni sulla qualità del cibo vengono quelle sulla quantità. Il monaco mangia poco e frugalmente.
Un pasto al mattino e uno a mezzogiorno, sempre in accordo con la stagione e quindi con gli orari deposti ai lavori che avevano la priorità in funzione della disponibilità di luce.

Si mangiava tutti assieme nel refettorio, tutti devotamente in silenzio mentre un confratello leggeva i passi della Bibbia sia come esercizio devozionale sia come sforzo penitenziale, posticipando il pranzo, ma comunque rinvigorito dal vino speziato messo a sua disposizione per attenuare i morsi della fame. Colui che si occupava di vegliare sulla mole di cibo a cui i confratelli potevano accedere veniva chiamato cellerario.
Costui era l’amministratore delle cantine e delle dispense, il responsabile dell’approvvigionamento delle provviste e infine quello che ne decideva la distribuzione in base alla mansione che i frati dovevano compiere durante la giornata. Al cellerario veniva richiesta esperienza e saggezza anche perché nelle sue mani stava l’intero vitto del convento, ma non doveva avere nemmeno un profilo troppo severo poiché un eccessivo stringere la cinghia avrebbe indebolito tutto il convento. doveva essere una persona moderata ma anche consapevole delle conseguenze del suo rigore.
Per concludere, queste discutibili ma affascinanti regole alimentari che hanno scandito la vita degli europei per secoli ci insegnano che il cibo e la sua amministrazione molto più di una semplice abitudine fu un mezzo di espressione culturale, un veicolo di valori spirituali che oggi nonostante l’erosione dell’elemento religioso non ha perso le sue contraddizioni.
L’astinenza aveva una proprietà purificatrice già nel mondo pagano prima che in quello cristiano, e oggi sopravvive nelle nuove forme del digiuno: le diete detox per migliorare il proprio rendimento o le pratiche meditative neo spirituali, senza tralasciare quelle azioni politiche di natura ecologica che mirano a costruire un nuovo uomo edenico non più in contrasto con la natura ma pneumatico, a impatto zero. Il cibo oggi come per secoli fa ci porta quotidianamente a scontrarci con la scomoda verità per cui consumare significa far scomparire esistenza portandoci a continuare questa strana storia di desideri e di colpe che l’essere umano intrattiene con la nutrizione.
di Francesco Pipitone
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