L’esperienza di una danzatrice di Bharatanatyam
In India i maestri sono delle figure fondamentali per il percorso di ciascun individuo. Nella danza classica indiana, il maestro rappresenta la carta d’identità, l’appartenenza, la discendenza, la tradizione, il passato e il presente.
L’esagramma 15 dell’I Ching, chiamato la Modestia, incarna non solo l’equilibrio tra grandezza e piccolezza, ma anche la proattività nel portare a termine ciò che si intraprende. La modestia non è staticità al contrario, è il vero motore del progresso, indispensabile per crescere. Nella mia esperienza di oltre vent’anni nella danza classica indiana, ho imparato che questa qualità è essenziale sia per chi apprende sia per chi insegna. L’umiltà diventa così il ponte che permette il fluire della conoscenza, un’attitudine che ho trovato incarnata nei miei maestri. Questo insegnamento si riflette nel processo di apprendimento e di messa in scena della danza, dove l’umiltà e l’azione si intrecciano in modo indissolubile. Nel movimento, infatti, agiamo nel tempo e nello spazio, quasi manipolandoli, impariamo a dirigere i nostri sforzi, a essere presenti e a concludere ogni movimento con intenzione e consapevolezza, soprattutto nella danza classica indiana ove una parte è dedicata al racconto espressivo di storie e miti.
Ho conosciuto il mio maestro Adyar K Lakshman solo nel 2006, da allora la mia visione della danza e della vita è mutata, trovando nella relazione maestro-allievo uno spazio sacro di trasformazione e arrendevolezza. La libertà dell’abbandonarsi è un tema che ho vissuto profondamente durante il mio anno intero trascorso accanto al maestro, grazie a una prestigiosa borsa di studio che mi ha permesso di immergere completamente nel suo insegnamento. Adyar K Lakshman era un uomo piccolo di statura, ma la sua presenza irradiava una grandezza che toccava ogni persona intorno a lui. Era impressionante vedere come chiunque, senza esitazione, si inginocchiasse ai suoi piedi. Inizialmente, percepivo quel gesto con occhi occidentali, come un atto di sottomissione, ma ben presto compresi che si trattava di qualcosa di molto più profondo.
Era un gesto di riconoscimento, un’ammissione di appartenenza a un cammino di conoscenza. In uno di quei momenti preziosi, vidi il mio maestro inginocchiarsi davanti a sua madre e a sua moglie, e fu allora che capii: tutti abbiamo qualcuno davanti al quale inginocchiarci. Da quel momento, le mie ginocchia hanno iniziato a cedere spontaneamente alla sua vista, e ogni volta che lo incontravo, il mio corpo sembrava rispondere a una forza più grande di me facendomi svenire ai suoi piedi. Questo non era un gesto di inferiorità, piuttosto di abbandono alla vastità del percorso che stavo intraprendendo. Abbandonarsi a qualcuno o qualcosa non significa perdere il proprio potere, anzi, è riconoscere che c’è ancora tanto da imparare, tanto da esplorare. Questa consapevolezza è liberatoria. Essere umili non è un limite, ma un’apertura. È il segreto per permettere alla conoscenza di fluire da una generazione all’altra, attraverso le mani, le parole e i gesti dei maestri. Riconoscere il cammino che quelle montagne davanti a me avevano già percorso, dunque essere grati del bene che questi esseri apportano al mondo e del privilegio di averli incontrati.
La modestia che l’esagramma dell’I Ching evoca trova una risonanza nella danza indiana, in cui l’atto di inchinarsi non è solo simbolico. Ogni sessione di danza inizia e termina con un gesto di riverenza: un inchino alla madre terra, al divino (qualunque esso sia), ai maestri e a coloro che condividono lo spazio sacro della danza in quel momento. Questo rituale non è mai eseguito con leggerezza, ma con un’intenzione profonda. È un riconoscimento del fatto che, per quanto possiamo aspirare alla perfezione, siamo sempre parte di un ciclo più grande, di una tradizione millenaria che ci trascende.
L’esagramma è composto da cinque linee yin, simbolo del mondo femminile e della ricettività. Esso racchiude molte qualità, tra cui una forza interiore nascosta dietro un’apparente debolezza. Questa manifestazione si traduce in equilibrio: avere i piedi per terra, essere consapevoli della forza di gravità e dell’appoggio che essa offre. Nella danza lavoriamo con i piedi nudi a contatto con la superficie, accompagnati dai sonagli alle caviglie ad accentuare le varianti ritmiche. Radicati nella terra ma con presente le altezze. La montagna, d’altra parte, rappresenta la quiete, la stabilità e la resistenza di fronte agli ostacoli. L’unione di questi due simboli genera un esagramma che parla di forza, equilibrio, umiltà e proattività, mostrando come l’essere vuoti, come la mente libera da pensieri estranei, permetta all’energia di fluire e di portare a termine il proprio compito.
Insegnare la danza è stato per me altrettanto trasformativo. Quando mi sono trovata dall’altra parte, come maestra, è stato difficile accettare che le allieve si inginocchiassero ai miei piedi. Mi sentivo inadeguata, incapace di occupare quel ruolo con la stessa grandezza dei miei maestri. Ma una volta una mamma indiana, vedendo il mio disagio, mi disse che per le sue figlie quel gesto era una necessità. Non era solo una questione di rispetto verso di me, ma verso la tradizione che rappresentavo. Ho dovuto imparare ad accettare, a riconoscere che anche io facevo parte di quel processo di trasmissione del sapere, un tramite tra passato e futuro. Dagli allievi ho imparato che la crescita e lo sviluppo richiedono umiltà, e che l’insegnamento stesso è un atto di creazione.
L’umiltà, infatti, è il vero motore del progresso nella vita. È attraverso l’umiltà che possiamo crescere, accettare la nostra limitatezza e riconoscere che siamo parte di un tutto più grande. La modestia non è un segno di debolezza ma la chiave per aprirsi al cambiamento, per essere pronti ad accogliere ciò che la vita ci offre. Come dice l’I Ching, «La modestia crea riuscita». Questo è il segreto che ho imparato dai miei maestri: essere modesti significa trovarsi pronti a imparare, crescere e a portare le cose a termine.
Affinché la conoscenza possa essere trasmessa, è essenziale creare uno spazio vuoto, uno spazio di ascolto. Occorre liberarsi dell’ego e della presunzione di sapere già tutto, per accogliere pienamente ciò che il maestro ha da offrire. Questo rende l’atto di insegnare e apprendere straordinario: è un processo continuo, senza punto di arrivo. La consapevolezza del “non sapere” è il primo passo verso la vera conoscenza. Solo svuotandosi si può riempire di nuova saggezza.
Questo processo è stato reso possibile dalla presenza dei miei maestri, dalla loro generosità e capacità di farsi veicolo di una conoscenza che va oltre la tecnica. Ho imparato che essere maestri non significa possedere la verità, ma avere l’umiltà di riconoscere che la verità è un cammino, e la danza uno degli strumenti con cui esplorarlo. Questo è ciò che rende il rapporto maestro-allievo sacro: un rapporto di fiducia e abbandono reciproco.
La danza, come la vita, è un processo continuo di apprendimento e azione. La modestia ci permette di rimanere nel flusso degli eventi senza forzare, senza cercare di prendere il controllo a tutti i costi. È un distogliersi da sé stessi per essere presenti, con semplicità e attenzione, in ciò che facciamo. Non è interessata a sé stessa, non ama il chiasso o le parole vuote, ma agisce con coerenza, ridimensiona e cerca sempre l’equilibrio tra il troppo e il poco. È un’abilità che permette di portare le cose fino in fondo con grazia, senza strafare, usando poche risorse e cercando il giusto equilibrio.
Come nell’esagramma 15, che parla di armonia ed equilibrio tra cielo e terra, la relazione con i miei maestri mi ha insegnato che la vera grandezza si trova nell’umiltà e nella fiducia che ci rendono liberi di fare le nostre scelte, anche quella di arrendersi consapevolmente. Riconoscere il nostro posto nell’universo e abbandonarci alla danza della vita ci consente di esplorare, in un incessante scambio tra ciò che sappiamo e ciò che dobbiamo ancora scoprire.
di Lucrezia Maniscotti
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