Recensione del libro Sogno della bianca melagrana di Mattia Carbone, a cura di Melania Biancardi
Un romanzo ben strano, questo “Sogno della bianca melagrana”.
Prima di tutto perché rinuncia fin da subito all’espediente classico per concludere le storie che s’intrecciano troppo in profondità per essere risolte dallo spiegone finale: era tutto un sogno, andate in pace.
L’autore lo scrive nel titolo: era un sogno, era tutto un sogno: andate in pace. Furbo e un po’ sfacciato, anche.
Di un sogno, di solito, si vuole conoscere la storia perché si ha la speranza di trovare la chiave per interpretarlo, scoprire cosa si celava sotto i simboli, ricavare dal viaggio onirico una qualche certezza di cui potremo farci forti e dire: evvai, risolta anche questa, il prossimo, grazie!
Un impegno da sbrigare velocemente, per tornare a consolarci con un’impressione di senso. Così si leggono i libri oggi. Con l’ansia.
Anche i protagonisti di questo romanzo vivono un po’ così, e anche l’autore, forse, come si legge nel cosiddetto “Introito” (termine che ha a che fare con l’economia, ma anche con gli inizi). Vanno a destra e a sinistra in cerca di risposte, di conferme, di sguardi innamorati, di misteri da svelare, sbattuti di qua e di là dalla corrente del sogno.
Rimarranno molto delusi: non c’è nessun posto dove andare, nessuna
conferma da trovare, nessuno sguardo innamorato da ricercare al risveglio, perché il
sogno non finisce. Non può finire. Perché non c’è più un altrove nel quale svegliarsi.
Sono almeno due i sogni di cui si parla in questa storia.
Il primo, il più evidente, coincide con la vita assurda e incasinatissima di questo liceale di nome Fez, che si
fa trascinare dal pluribocciato amico e caporedattore del giornale scolastico Gen in un’inchiesta metà demenziale metà satanica, che intreccia la storia degli Anni di Piombo, la morte di Pasolini, il Veltro di Dante e una versione nostrana del Pizzagate, con tanto di vampiri liberal succhiasangue ed economisti-killer fissati con questa idea balzana che i debiti aperti debbano essere prima o poi saldati.
Ognipensiero, ogni persona, ogni evento di questa storia, come spesso accade nei sogni, è simbolo di qualcos’altro, di cui il lettore non sa nulla. Questo qualcosa, si presume, sarebbe la vita vera e propria del protagonista (o del narratore? o dell’autore?), se fosse sveglio e potesse parlarci chiaro e tondo. Ma la melagrana dorme e sogna: così ci dice il titolo.
“Who is the dreamer?”, chiedeva già Monica Bellucci agli spettatori di Twin Peaks. Cos’è la melagrana, unità composita, mera apparenza di sostanza, formata da tanti piccoli chicchi asprigni? Anche al lettore viene il dubbio di non essere forse lui stesso a sognare, soprattutto quando si accorge che il romanzo gli sta dando del tu.
L’aveva fatto già Calvino, sì, ma se ora è il tuo stesso sogno a chiedertelo, che sembra sul punto di chiamarti per nome, un po’ ti viene l’istinto di prendere penna o parola per rispondere forte e chiaro il tuo “sì!” oppure “assolutamente no!”.
A quale domanda, però? Almeno tre: sono “io”, che sto sognando? Ma anche: sono “io”, che sto scrivendo? E da ultimo: sono “io”, che sto leggendo?
L’identità del secondo sogno è meno evidente. Ne parla qualche personaggio chiamandolo “Sogno della Caterva”, ed è la storia di come il XXI secolo ha spazzato via tutto ciò che esisteva prima di sé per sostituirlo con un mondo di plastica e magia nera attraversato da impulsi elettrici che talvolta rianimano i corpi disabitati degli esseri umani come le rane di Galvani, restituendo una sembianza di vita a macchine
servili prodotte per i fini supremi della Necessità.
Sono esseri umani, questi personaggi? O sono “spiriti dell’aria” precipitati sulla terra dal “Reame di Saturno”? Il Sogno della Caterva cresce su sé stesso, si moltiplica come i numeri del profitto finanziario e quelli della demografia impazzita di questo pianeta.
Crescerà all’infinito? Oppure esploderà a un certo punto come un palloncino?
Ma soprattutto: che dobbiamo farci, con questo sogno? Almeno da questo punto di vista, all’autore si deve riconoscere un certo pragmatismo: sarebbe meglio svegliarsi; il romanzo non è altro infatti che “il resoconto del faticoso risveglio di un dormiente dal sogno che lo imprigiona”.
Ma Fez, come il Dio nel cui nome si chiude il romanzo, “dorme e sogna”, anzi “non smetterà mai di sognare”. Che è come dire che i romanzi, una volta scritti, non possono fare altro che continuare (anche un po’ stupidamente) a raccontare sempre e soltanto la stessa storia.