La Modestia

Introduzione al n. 34

Alla fine dell’ultima “puntata” ci eravamo lasciati con il tema del Ristagno, numero 33 della nostra rivista, quando per uscire dalla palude occorreva muovere piccoli moderati passi. I buddhisti direbbero “un passo indietro e due avanti”.   La Modestia, esagramma 15, è il primo di questi passi. Viene dipinta nell’I Ching attraverso gli elementi naturali della Terra e del Monte, ma stranamente è il Monte a stare sotto la Terra.

ideogramma della Modestia, calligrafia di Bruno Riva

È per noi interessante che il ciclo del kali yuga (la fine del mondo), che nello scorso numero avevamo relato al tema del Ristagno ripercorrendo le credenze di gran parte dell’Asia, cessi con l’apparizione di Śhambhala (almeno secondo i testi tantrici). Śhambhala è un regno nascosto sotto la superficie terrestre, ricco di montagne e preziosi mandala. Quando la sua eco giungerà a noi, darà vita alla leggenda di Agarthi e al mito della Terra cava, che parlano appunto di una montagna sacra celata nel sottosuolo. È di fatto simile all’immagine dell’I Ching, cioè quella di un potere non ostentato, modesto e sotterraneo. Le religioni e la spiritualità orientali appaiono sovente ai nostri occhi come esempi di contegno e temperanza. L’ānatman delle dottrine buddhiste, cioè il non-Sé. Il wu wei nel Taoismo come non-azione. Il tema della “persona sottile” nel Lamaismo. L’uccisione del Buddha nello Zen. Sarebbe facile declinare il lemma della “modestia” a tutte queste pratiche che da tempo si sono ormai affacciate all’Occidente. La Modestia è però anche una disciplina controversa e oscura, per renderla più tridimensionale può quindi essere utile fare due esempi, colti agli antipodi del Vicino ed Estremo Oriente.

Mandala Of Kingdom of Shambhala (The Source of Happiness) – Buddha Collection – Art Prints

Il primo è il fenomeno dei Malāmatiyya, setta musulmana nata nel IX secolo nel Khorasan attorno all’idea che il vero asceta sia tenuto a nascondere le proprie virtù e ostendere, ex negativo, i propri vizi al fine di suscitare “biasimo” (malāmah) e auto-infliggersi punizioni. In poche parole, bestemmiare Dio per riconoscerlo. Questa strana forma di modestia, animata anche dall’Īthār, ossia da un sincero altruismo, si basa fondamentalmente sull’idea che il nafs, il Sé, sia sì fonte di mali, ma non si possa annullare in quanto illusorio, bensì mettere alla prova solo attraverso l’umiliazione, il “percorso della colpa” e la distruzione dell’ipocrisia delle buone azioni che ammantano la fede di moralismo distogliendola dai suoi veri scopi. I Malāmatiyya, poi erroneamente associati al misticismo Sufi, erano in realtà fondamentalmente dei Futuwwa, cioè membri di confraternite cavalleresche. Questo li distingue ad esempio dagli Jurodivyj, gli Stolti in Cristo russo-ortodossi, che perseguivano anche loro la verecondia e la castigazione personale ma in modo del tutto anacoretico. Dagli altopiani afghani e iraniani, spostiamoci invece nel nostro amato arcipelago. All’altro capo geografico e semantico del confronto troviamo infatti il ruolo della modestia all’interno della realtà giapponese, descritta da alcuni sociologi come bifronte e riassunta dai termini omote e ura, che significano “dritto” e “rovescio”. Le procedure socio-relazionali si svolgono sul lato del dritto, come un galateo di facciata, ma significano sul lato del rovescio sottoforma di inconscio collettivo.

Lo jurodivyj Andrej (part.), Scuola di Mosca, XVI sec.

Il pesante formalismo nipponico espresso in quasi tutti gli aspetti della vita, dai cerimoniali linguistici agli insensati oneri burocratici, dall’etichetta dell’omotenashi alla compostezza di inchini e titoli onorifici, investe spesso il giudizio critico dell’occidentale con un senso di fariseismo e tartuferia. Per spiegare in modo più approfondito questo atteggiamento dei suoi connazionali, lo psichiatra Takeo Doi ha pubblicato agli inizi degli anni Settanta un importante saggio dal titolo “Anatomia della dipendenza”, in cui definisce il concetto di amae.

Amae è il sostantivo che proviene dall’aggettivo amai che significa “dolce”, a esprimere una cifra di languida dipendenza emotiva che aduna il riserbo (kigane), il ritegno (enryo), il tentativo di ingraziarsi qualcuno (toriiru), ma anche l’atto di sdebitarsi e la frustrazione. Stratifica, in poche parole, le esperienze storico-sociali dell’Impero giapponese, dall’etica Bushidō – Doi cita l’episodio dell’ignominia del generale Nogi, cui in battaglia fu strappata di mano la bandiera dal nemico – fino al vittimismo seguito all’onta di Hiroshima e Nagasaki.

Alla definizione vocabolaristica, Doi aggiunge alcune brillanti considerazioni che ci riportano al nostro esagramma. Una è che l’amae confonde i concetti di vergogna e colpa e ritrae perciò un paese invischiato ancora in un pregresso culturale arcaico cui si è brutalmente imposto, con l’apertura dei mercati, il codice legalistico occidentale. Un’altra è che indizio della loro fierezza non del tutto svezzata è il legame etimologico fra i titoli onorifici nipponici con il lessico infantile (l’Imperatore è soprannominato Kakka), e dunque lo stretto rapporto fra l’amae e il termine jibun, che sta per Ego, nel segno di un soffuso complesso edipico.

Esempio di omotenashi cui viene educato
lo staff di un centro commerciale

Per venire al nostro esagramma, la forma grafica di un insieme di linee deboli (Yin) attorno all’unica linea forte (Yang) posta in posizione inferiore restituisce non solo l’immagine di questo ambiguo individualismo, ma anche il desiderio verso un moto di crescita e maggiorazione che porta l’unica linea Yang a salire di livello nell’esagramma successivo dal titolo, non a caso, Il Fervore.

La modestia non era dunque falsa, fungeva da antitesi dialettica a un futuro riscatto. Era un titolo di credito, una cambiale, il passo indietro che prepara quelli incipienti. Opposta al nostro gloriarsi invano, è un sottacersi orgoglioso.

Come dice il Sensei nel romanzo Anima, di Natsume Sōseki: «Se oggi si sta in ginocchio davanti a una persona, domani le si potranno mettere i piedi in testa». Relativismo culturale? A ognuno di noi il compito di formularsi un giudizio.

di Federico Filippo Fagotto

Autore

  • Federico Filippo si risveglia dal sonno dogmatico nella bella facoltà di Filosofia in Statale e si riaddormenta con gli studi a Venezia. Tornato a Milano, dopo il gong della laurea in Scienze Filosofiche, inizia collaborazioni con la cattedra di Estetica e nel frattempo, in fuga dall’accademismo, ha la fortuna di radunare un gruppo di ragazzi pieni di stoffa e fondare la rivista di arte e cultura La Tigre di Carta, cui segue l’Associazione culturale La Taiga che gestisce il teatro e circolo culturale Corte dei Miracoli. Fra editoria ed eventi, gioca col violoncello il bridge e lo yoga. Tutto ciò non fa bene alla salute... meglio scrivere!

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