Il Sedato, l’Inattivo, l’Anodonta
INIZIO
Secondo la scienza della frode, l’Europa è entrata in una fase di «stagnazione secolare» cioè una «situazione di bassa crescita reale e di non pieno impiego delle risorse con bassi tassi di inflazione o deflazione».
Un termine così pomposo, utilizzato per indicare un fenomeno di così scarso interesse, giustifica il nostro furto linguistico e una ricollocazione del termine «stagnazione secolare europea».
Parlare della stagnazione vorrà dire trattare dell’Europa-stagno, palude, fanghiglia. Nelle sabbie mobili europee gli organismi complessi sprofondano, inciampano, si affannano.
Quantitativa e corpuscolare, la vita si riduce in fattori primi: batteri, invertebrati e microrganismi parassitano colossi di carne in putrefazione.
Del genio artistico, del lume scientifico e dell’intuizione religiosa restano solo reazioni elettrochimiche, di cui i processori d’ultima generazione – ci dicono – sembrano comprendere il significato meglio della paccottiglia cibernetica che li ha progettati. Il fango si sente debitore verso il demiurgo.
Ora, collocata fuori dalla possibilità di rifornimenti idrici esterni e costanti la vita endogena dell’acquitrino avanza autoconsumandosi: lo stagno digerisce, dissipa, scompone. ll suo stesso fagocitare è un autofagocitarsi: aspettando il prosciugamento. Il sole brucia, ma brucerà di più.
IL SEDATO
La sensibilità è la forma primordiale di comunicazione con l’ambiente circostante: il tatto segnala una presenza terrestre, la vista e l’udito una profondità spaziale, l’olfatto e il gusto un movimento dell’appetire.
Il sedato, col suo corpo an-estetizzato, immobile e stantio, troncato dal suo stesso apparato percettivo, riduce ai minimi termini le funzioni vitali. Il suo pensiero, invece, non è più in sé; ha dato di matto, schizzato, voleva uccidersi ma, non sapendo come fare, ha ucciso tutto il resto.
Morto il mondo non resta che lui: il pensiero. E da allora è sconsolato, molle e nauseabondo come polpa divorata da Dio e dagli enzimi; è impastoiato, si dimena pur rimanendo immobile, ed è allora che cade in un sistema chiuso, imperituro, perfetto nel suo equilibrio (il primo principio della termodinamica, il pensiero l’ha partorito una notte che aveva esagerato con le benzodiazepine).
Nell’attesa larvale e messianica di un’emozione sempre più indefinibile, il sedato conosce una possibilità ulteriore della propria esistenza an-affettiva.
«Sotto l’effetto della clorpromazina tutto ciò di cui è possibile godere è dell’assenza di godimento». Un godimento di nulla che è proprio della mente spettatrice passiva di sé stessa, il grado zero del pensiero ristagnante nel vuoto di contenuto mentale.
Il ristagno è la gabbia senza porta, il castello senza guardia. Il ristagno è il morso delicato che cinge un collo dai tendini ormai lassi. È quando si dorme perché è tardi anche per piangere.
Forse il sedato somiglia a un asceta, e ciò che è più ironico è che il messia postmoderno sia strafatto. L’effetto dell’annichilimento del suo apparato sensibile, infatti, a differenza degli esercizi spirituali dell’asceta, non culmina in alcuna estasi o visione divina.
Con una mente incapace di pensare il sedato si approssima a una santa stupidità.
L’INATTIVO
I supermercati, i giorni feriali, sanno di morte; le domeniche, invece, sembrano templi antichi. Le strade della città brulicano di indaffarati: ci disgustano; ma le vie vuote in notturna ci attraggono come medaglioni incantati.
Seppellito sotto sfere di fango, chi ristagna ha il suo avvento solo con il crepuscolo perenne. Quando entriamo in una sala dismessa per la computazione di vecchi terminali MS-DOS ci assale la precisa e fulminante sensazione di essere al di là del tempo; quella stessa che patiamo nell’istante in cui ci abbandoniamo al sogno.
C’è una musica per correre, sintonizzata sulle frequenze atte a trasformarci in macchine immemori; e ce n’è un’altra invece per distillare l’opacità dell’esistenza. Un forte senso di alienazione ci spinge a voler andare via. Non sono davvero, tutti questi, differenti tentativi per cancellare la vita attiva?
L’insistenza di tutta una filosofia, che ha alle sue origini l’idea che la sostanza sia in fondo attività – Aristotele e l’entelechia; Giovanni Scoto Eriugena e la natura naturans; Spinoza e il deus sive natura, Vico e la storia provvidenziale, lo spirito e l’idea in moto di Hegel, la materialità storica di Marx, la corsa evolutiva di Darwin – è talmente desolante da lasciarci senza una parola di contrarietà.
Parole fumose sulle quali tuttavia la coscienza malata occidentale e globale si è edificata la propria salvezza. Una teleologia, in fondo, che non sa fare a meno di giustificarsi.
L’inattivo invece rimane immobile e la propria immobilità è l’unico stralcio di prova di cui abbia davvero bisogno per contrastare la vita.
«Dimenticateci, o anonimi di un futuro anonimo: noi non siamo mai stati altro che nulla». Potrebbe essere l’epitaffio e il battesimo della forza, che per quanto vitale si è opposta alla vita per essere nulla.
Sono i casi eclatanti degli improduttivi, del loro rifiuto, e del disgusto che la loro presenza ispira in modo istintivo. Essi dimostrano il grado di imprevedibilità che la loro stasi può assumere nell’organismo sociale.
Le gilde rimangono silenti, e coloro che, inattivi, agorafobici, esiliati, si trascurano, accrescono le proprie energie, e i cani sciolti fanno il loro corso, ubriachi di solitudine e stelle monche di luce.
Non sono sette antipolitiche con l’ambizione di potere, bensì anonimi fasci di potenza, in cui ognuno è un mero e singolare qualsiasi. A costo della loro dissoluzione, si trasmettono attraverso nuovi congegni disarticolati, su traiettorie diagonali a ogni organismo e organizzazione.
Il corpo stesso, primo e ultimo involucro e supporto della vita che riproduce se stessa, elevato a soggetto ultimo dal pensiero dello scorso secolo, può essere infine distrutto a favore di un’esistenza pienamente a-corporea, elettrica, radioattiva, subatomica.
Perché l’esistenza infine si rimescola in sé stessa, come un acquitrino che imputridisce, tanto da sembrare un lago di purezza oscura, senza scopo o direzione, un poliedro a infinite facce specchianti, che rimandano tutte lo stesso quesito senza volto.
L’ANODONTA
«Una umanità simile all’anodonta, che vivesse coricata utilizzando quanto le fosse rimasto degli arti anteriori per premere dei pulsanti»: una tale visione fantascientifica non è soltanto inconcepibile, ma già perfettamente realizzata, almeno da un certo punto di vista.
Già; ma da quale? Dal punto di vista del primitivo, che non aveva ancora espulso nella ruota – o nel Frecciarossa, che differenza c’è? – la propria facoltà di locomozione? Da quello dell’uomo illetterato, tribale, che non aveva ancora barattato il calore inebriante della vera memoria – memoria fusionale, estatica, nella quale a malapena un sé poteva distinguersi dall’antenato e dall’eroe – con la gelida miseria del supporto scritto, dell’archivio, e della teca museale che ne è l’ovvia appendice?
O ancora, dal punto di vista dei nostri nonni, che ancora non avevano subappaltato alle app, ai data analyst e alle piattaforme il proprio senso dello spazio, del corpo, del prossimo, del continuum temporale, del desiderio che incalza, dell’irriducibile imprevedibilità di un incontro, dell’altrettanto irriducibile resistenza delle nostre anime a questa imprevedibilità?
Forse, da tutti questi punti di vista contemporaneamente, dalla successione non lineare delle prospettive che fa da schema stesso del mondo, e che è impossibile a concepirsi – non diciamo a raffigurarsi – per la nostra mente monodimensionale.
Ogni uomo è un’anodonta sulle spalle dell’uomo, a ogni uomo rimane qualcosa dell’uomo, degli arti anteriori dell’uomo, «ogni uomo è in verità tutti gli uomini», certo, ma lo è soltanto in quanto è coricato sopra il mucchio di ossa dell’umanità, senza sospettarlo; soltanto in quanto il suo animo fa da spazio nel quale può ristagnare ciò che un tempo era carne e vita.
Ogni epoca è il ristagno di tutte le epoche; la linea verticale del tempo – detta anche colonna vertebrale, o postura eretta – che intersecò la storia, così almeno è scritto, si è infine coricata, ora come ogni volta ma come non mai; lasciamola dormire, non disturbiamola.
Alcuni hanno affermato che la nostra condizione è quella di un paradossale «ristagno frenetico», che gli eventi ci lasciano a un tempo sovreccitati e indifferenti, spasmodici e apatici, che questa forma dissestata del tempo corrisponde al dissesto della nostra sfera psichica, al crinale deflattivo lungo il quale si è avviata con le patologie che la martoriano, coi fantasmi che la infestano.
Senonché, nella cosiddetta Storia, nulla ritorna se non per differire vertiginosamente da sé stesso, e anzi per far sprofondare nel ridicolo lo «stesso» come tale.
La ripetizione non è altro che una funzione interna alla differenza, un suo derivato, una deformazione ottica provocata dall’infinito differire di tutte le cose, come se la differenza fosse l’acqua di uno stagno e la ripetizione il bastone che, immerso in essa, sembra deformarsi.
La celebre formula andrebbe modificata: la Storia è già da sempre farsa – «Acta est fabula, plaudite!» – e, se talvolta può essere tragedia, è solo perché l’uomo si è mostrato in grado di scacciare nell’oblio, con quella che è forse una delle poche prestazioni encomiabili della sua rete neurale, la radice farsesca della propria storicità; a stento, molto a stento, i nostri canali sensoriali aderiscono al nudo tempo.
Ed è ridicolo, proprio perché vero, che gli atomi cadano in verticale, e che talvolta qualcuno di questi atomi devii dal suo corso, dando origine a un mondo; ridicolo è anche lo «splash!» che gli atomi fanno quando cadono nello stagno che li accoglie al fondo del vuoto.
È proprio dall’acqua di questo stagno che, per la prima volta, l’anodonta è stata vista fuoriuscire (ma da chi?). Ed è per questo che, appena avremo finito di scrivere, andremo al supermercato, al bancone del pesce, a ordinare un chilo di anodonte, sperando che siano fresche, ma trattenendoci dal chiederlo all’uomo dietro al bancone per non metterlo in imbarazzo; una volta a casa, prepareremo per le anodonte un soffritto con aglio e peperoncino, caleremo gli spaghetti, li scoleremo due minuti prima della cottura, li gireremo nel sughetto delle anodonte per far prendere loro sapore, e solo allora ci chiederemo: è in questo sughetto frenetico che l’uomo ristagna? che la Storia ristagna? che le macchine girano a vuoto? Questo prodotto può contenere tracce di atomi. Poi mangeremo.