L’Era della stagnazione

Dal fallimento del Sesto piano quinquennale alla Perestrojka

Dopo la morte di Stalin, nel 1953, la lotta interna al PCUS per la guida dell’URSS culminò con la vittoria di Nikita Chruščёv e con l’avvio del Sesto piano quinquennale, esteso di fatto a oltre un decennio con un successivo piano dall’eccezionale durata di sette anni. Sebbene il Governo puntasse anche su un forte incremento della produzione metallurgica ed elettrica, dedicò le energie dello Stato soprattutto all’incremento nella produzione di materie prime quali carbone, petrolio e grano. La Campagna delle terre vergini portò alla fondazione di nuovi kolchoz, cioè fattorie collettive, distribuite tra vaste estensioni di terreni incolti nell’attuale Kazakistan, degli Urali, della regione del Volga, della Crimea, della Siberia e dei territori dell’estremo oriente russo.

Dal 1954 al 1960, la superficie totale seminata nell’Unione crebbe di 46 milioni di ettari. Molti kolchoz si fusero, riorganizzando in maniera più funzionale la produzione. Sebbene la produzione di grano ebbe un deciso incremento si rivelò presto fluttuante, perché questa mastodontica operazione fu carente in fatto di pianificazione e, al termine degli anni Cinquanta, il suolo rimase esausto, eroso e battuto dal vento, riducendone ampie aree a steppe irrecuperabili. Si arrivò presto a dover importare grano canadese.

Fu con queste premesse che, dopo la deposizione di Chruščёv nel ‘64 e la presa di potere della troika Brežnev-Kosygin-Podgornyj, il PCUS dovette progettare rimedi per un futuro economico dai contorni incerti. Questa triade è infelicemente ricordata come l’artefice della grande stagnazione sovietica, un periodo di mancato sviluppo che l’URSS non sarebbe più riuscita a compensare. Un giudizio storico, questo, che appare perlomeno incompleto.

Il ruolo di Primo ministro toccò all’economista Aleksej Kosygin, il quale avviò la riforma del ‘65.

Kosygin si associò strettamente alle idee riformiste di Ovsij H. Liberman, professore di economia all’Università Nazionale di Charkiv, il quale sosteneva che gli scambi economici nel mondo si stessero complicando e che bisognasse incentivare le imprese sovietiche a fare innovazione con la prospettiva di trarne maggiori profitti. Alle imprese fu così concessa maggiore autonomia dal dirigismo statale, il cui novero di obiettivi venne limitato per dare più spazio all’iniziativa delle varie dirigenze aziendali che ottennero una buona dose di discrezionalità nel fissare il numero di dipendenti, stabilire accordi commerciali e definire il proprio percorso di sviluppo, utilizzando più liberamente i fondi statali. Le imprese dovevano fornire indici di efficienza, quali utili e redditività, contando sulla possibilità del tutto nuova di poter fissare prezzi di vendita redditizi per i propri prodotti. Buona parte del Partito e dei dirigenti economici locali si opposero nei fatti al progetto che non riuscì a realizzarsi appieno, eppure gli stipendi medi aumentarono moltissimo e insieme a essi aumentò il consumo interno, sospinto anche da un significativo miglioramento nelle relazioni con gli USA.

I buoni risultati di questa iniziativa furono, però, sostanzialmente ignorati.

L’Ottavo piano sortì ottimi risultati sul fronte agrario e su quello tecnologico, con la diffusione dei primi sistemi di elaborazione che permettevano di implementare un sistema meccanografico per l’archiviazione e l’analisi dei dati. Il Nono, tuttavia, ebbe risultati deludenti, di nuovo soprattutto sul fronte della produzione di grano, inferiore alle aspettative di ben 70 milioni di tonnellate. Su questo piano pesava il fallimento del secondo tentativo di riforma economica guidato da Kosygin a partire dal 1973, un piano sempre finalizzato a indebolire i Ministeri centrali in favore dei pianificatori regionali. Il Primo ministro puntava alla creazione di associazioni di impresa, repubblicane locali, capaci di derazionalizzare la struttura dell’economia sovietica. Il problema di queste associazioni era che spesso i loro membri, derivanti da una media di quattro imprese distinte, erano dislocati lontani gli uni dagli altri e non condividevano gli stessi obiettivi di sviluppo regionale, complicando ulteriormente la farraginosa macchina decisionale dell’economia sovietica.

Il Decimo piano, approvato nel ‘76, si distaccava dalle opinioni di Kosygin, favorendo piuttosto quelle di Brežnev: puntare tutto sull’industria pesante, la difesa e il rilancio della Campagna delle terre vergini in Siberia. La crescita industriale risultò nuovamente inferiore rispetto alle previsioni. Durante l’Undicesimo piano, si finì con l’importare un media annua di 42 milioni di tonnellate di grano dall’Occidente, perlopiù dagli USA con i quali la distensione proseguiva positivamente. Va detto che l’URSS stava anche esportando parecchio, soprattutto nel settore energetico, bilanciando queste continue importazioni agricole. Il vero limite di queste manovre riformiste furono l’incompletezza e l’incoerenza che rispecchiavano il conflitto di opinione interno alla dirigenza, in parte attestata sulle posizioni economiche e politiche più bolsceviche e antioccidentali, in parte su quelle mediatrici e distensive. La gestione della Russia postrivoluzionaria era nata in un contesto storico di cui ormai non rimaneva più nulla. La politica stalinista aveva collezionato risultati così straordinari da essere stati determinanti nell’intimorire il mondo capitalista. Il fatto che il suo approccio non potesse più avere la stessa efficacia, seppure evidente, per buona parte della dirigenza del Partito non era facile da accettare, a prescindere dal fatto che potessero interpretare talune riforme come deviazionismi.

L’URSS stava imboccando una strada promettente nel tentativo di adeguarsi alle mutate condizioni globali, ma non riuscì a farlo con la stessa decisione e sistematicità che fino a quel momento l’avevano caratterizzata

sullo scacchiere internazionale. Il completo arresto, da parte di Stalin, della Nuova politica economica che Lenin aveva iniziato il 1921 e che era proseguita fino al 1928, quando il sistema economico sovietico divenne in parte statalizzato e in parte libero, era sfociato in un sistema ormai troppo distante dai parametri di funzionamento delle altre economie.

Ai dirigenti aziendali conveniva sottostimare il potenziale produttivo delle proprie aziende, piuttosto che espanderlo il più possibile, perché così facendo potevano negoziare con le autorità degli obiettivi produttivi meno onerosi. I benefici personali che ottenevano dallo Stato limitandosi a raggiungere i suddetti obiettivi erano sostanzialmente gli stessi che avrebbero raggiunto superandoli. Non potevano modificare questi obiettivi in corso d’opera, nemmeno se dimostravano che le modifiche avrebbero prodotto migliori risultati. I fondi erano allocati su progetti precisi e non potevano essere deviati. Il Governo aveva ricominciato a imporre prezzi bassi ai prodotti per favorire i consumatori, ma non aiutava le imprese ad abbattere i costi di produzione, nonostante l’enorme quantità di spesa pubblica investita costantemente negli armamenti che la Guerra fredda imponeva.

Nel 1985, Michail Gorbačëv lanciò la sua Perestrojka, una completa ristrutturazione dell’intero sistema statale dell’URSS basata sulla decentralizzazione e sulla reintroduzione parziale della proprietà privata sulla falsariga della NEP leninista.

Il nuovo corso divenne rapidamente più politico che economico e sfociò nel conflitto interno. Gorbačëv ridusse la censura statale e democratizzò l’URSS, aprendosi a una concezione socialdemocratica. Puntava a distendere i rapporti con gli Stati satellite del Patto di Varsavia, smettendo di intervenire direttamente nelle loro politiche interne, nonché a ricostruire i rapporti tra Stato e autorità religiose. Se da un lato la dichiarazione di non voler più porre la lotta di classe al centro dell’ideologia sovietica migliorò i rapporti con Cina e USA, ai Paesi del Patto il PCUS continuò a fare imposizioni e casomai prese a disinteressarsi delle loro reali questioni locali.

Mentre ci si focalizzava sull’industria meccanica, le esportazioni di petrolio diminuivano e le prime liberalizzazioni creavano un piccolo numero di ricchi uomini d’affari che nutriva la già imperante corruzione.

Nel 1986, il disastro di Černobyl’ causò una nuova ondata di costi e problemi. Deficit e disoccupazione aumentarono, portando a ondate di scioperi partecipatissime, soprattutto tra i minatori del Donbass. Boris El’cin, riformista radicale e sostenitore del ritorno alla sovranità nazionale per tutti i membri dell’URSS, collezionava consensi. Nell’agosto del 1991, un fallito colpo di Stato da parte degli oppositori di Gorbačëv rese indiscutibile la compromissione della sua capacità di comando e consentì a El’cin di prenderne il posto, dichiarando sciolta l’Unione e conclusa l’esperienza sovietica.

di Ivan Ferrari

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Autore

  • Laureato in filosofia, redattore della Rivista e socio collaboratore dell'Associazione culturale La Taiga dai giorni della loro fondazione, ha interessi soprattutto storici e letterari.

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