| Quando la noia leopardiana si fa angelo della storia
L’epoca in cui abitiamo ha votato sé stessa ai codici del progresso. Si iscrive unicamente entro la sua volta. Unicamente secondo i suoi parametri e giudizi di valore si muove. Siamo dunque abituati ad attribuire senso, logica, fiducia a quelli che valutiamo i suoi sinonimi o significati sottesi: dinamismo, energia, attivismo, produttività. È negativo ciò che invece ha a che fare con l’inerzia, l’immobilità, con ciò che insomma sta fermo. Ma questa sua storica accezione descrive davvero il fenomeno in quanto tale o è più che altro il frutto di un pregiudizio culturale?
Basti pensare al Medioevo, dove il ristagno veniva fatto coincidere con il riposo concesso ai campi messi a maggese. Il terreno aveva bisogno di respirare, di recuperare la sua fertilità. Consisteva in un vincolo necessario.
I mesi, gli anni, la storia stessa erano trattati alla stregua di un ciclo, di una circonferenza solida che andava percorsa per ritrovarsi pertanto, come sul quadrante di un orologio, a passare sempre dallo stesso punto almeno una volta al giorno.
La modernità invece considera il tempo una linea orizzontale, retta, tesa indefinitamente. Tornare indietro è sempre peccato. Andare avanti è l’unica via. Sfruttando intensivamente tutto ciò che accade e si manifesta, finanche gli esseri viventi, sempre di più e sempre più accanitamente, un modo di operare che sfiora la maniacalità, la velocità, l’affanno e mai la discesa, l’attenuamento, la rarefazione, la calma.
Sono «le magnifiche sorti e progressive del secol superbo e sciocco» di cui parla Giacomo Leopardi ne La ginestra. L’uomo non è solo plagiato dalla natura matrigna che su di lui incombe e rende vane le sue azioni. È stolto e ingenuo perché continuamente costruisce là dove sa che, presto o tardi, un giorno o l’altro, un fiotto di lava proveniente dalla cima del vulcano distruggerà ciò per cui ha faticosamente lavorato. Questo è certo un atteggiamento di nobile resistenza, di tenacia a fronte di condizioni avverse. Il «furor cieco» delle passioni e dell’impeto della conoscenza. Un’eco del «Fatti non foste a viver come bruti» del canto dantesco. Ma si tratta al contempo del peccato di hybris, di tracotanza, di incontinenza, che si rivolge non alle divinità dell’Olimpo, bensì allo spirito ben più inarrestabile e indomabile dei mari, dei venti, della terra. Il continuo spingersi avanti delle cose produce catastrofe, è il prodotto di un atto empio, che sviscera, divelle, deturpa la superficie armonica su cui riposa lo stato naturale.
Non a caso Leopardi fu accusato di pessimismo dai suoi contemporanei oltre che dai posteri. «Ben ch’io sappia che obblio / preme chi troppo all’età propria / increbbe», scrive al verso 65. L’oblio nasconde coloro che sono troppo dispiaciuti alla generazione alla quale presentarono le proprie opere. Sosteneva che il processo etico e scientista avrebbe condotto il mondo a «un serraglio di disperati», forse anche a un «deserto».
A fronte dell’illusione, peraltro quasi mai fatua e leggera, ma portata avanti con la forza, della propria progressione, del proprio costante divenire in meglio, del proprio permanente superare sé stessi, Leopardi rivendicava il valore della sospensione o della noia. «La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani», annota nel Pensiero LXVIII. «Nondimeno il non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio».
Prendere atto della propria irrisorietà, delle proprie frastagliate contraddizioni e goderne, saperne trarre godimento, riuscire a conviverci. Saper stare all’interno di una dissociazione, ovvero privati di qualcosa che non è immediatamente accessibile o a disposizione. Questo è un segno di autentica salute psichica, diremmo oggi, e per Leopardi una postura controcorrente, davvero antitetica all’andamento della maggioranza, che invece procede innanzi, per questo propria al ruolo e alla mente del poeta. A lui solo è consentito «immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo». Una tensione puramente esistenziale, immaginifica, pregna di reminiscenze simboliche, che scuote l’essere e solletica la sua pienezza. È il primato del sogno sulla realtà, della potenzialità sull’atto. Del vuoto a perdere, del movimento mancato. Proiettarsi altrove, fuori da sé solo con la forza del pensiero è spesso più fecondo che agire, satura la nostra creatività assai più della brutale applicazione ai fatti nudi, scarni che effettivamente si svolgono. Il gergo bellico la chiama «forza assente». L’obiezione di coscienza dei disertori, che si dichiarano «non disponibili», «non presenti» a combattere. D’altro canto, si sa che solo un ricorso a questa umana forza assente, cioè un prolungato ristagno su scala mondiale – come fu la pandemia del covid – potrebbe forse presentare alla terra l’eventualità di salvarsi dal collasso climatico.
«E però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana».
Lo stesso Benjamin contestava l’idea che la storia fosse composta di una successione di istanti tutti uguali, che il tempo fosse per così dire un’unità omogenea. Ne Il concetto di storia si sofferma sulla figura dell’angelo ritratta in uno dei più famosi acquerelli di Paul Klee, una sorta di manifesto antiprogressista: «Un dipinto di Klee intitolato Angelus Novus mostra un angelo che sembra sul punto di allontanarsi da qualcosa che sta contemplando con sguardo bloccato. I suoi occhi sono fissi, la bocca è aperta, le ali spiegate. Così ci si raffigura l’angelo della storia. Il suo volto è rivolto al passato. Laddove leggiamo una catena di eventi, lui vede un’unica catastrofe che continua ad accumulare rovine su rovine e le scaglia ai suoi piedi. L’angelo vorrebbe restare, risvegliare i morti e riparare ciò che è stato distrutto. Ma una tempesta sta soffiando dal Paradiso, che ha ingabbiato le sue ali con tale violenza che l’angelo non può più chiuderle. La tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, cui volge le spalle, mentre il cumulo di rovine davanti a lui cresce verso il cielo. Questa tempesta è ciò che chiamiamo progresso».
L’angelo di Benjamin prega di fermarsi. Vorrebbe sostare, tendere alle macerie che vede affiorare dal mondo, dunque dalla storia, ma è sbalzato dai refoli di un vento al quale non può resistere. Una concezione di progresso antitetica a quella a cui siamo abituati, cui ci si pone in posizione contraria, alla maniera di Leopardi, dandogli le spalle, così che da lui si è trascinati all’indietro e non in avanti.
Differentemente da Marx, il quale riteneva le rivoluzioni un’accelerazione della locomotiva su cui viaggiava l’umanità, per Benjamin le rivoluzioni sono il freno di emergenza che l’umanità tira in viaggio su quello stesso treno. La discontinuità, l’interruzione aiutano gli oppressi e le cose infrante. Le cose caduche, fragili, vulnerabili trovano conforto e vedono ristabilita la loro identità soltanto negli stati di sospensione.
La tendenza naturale, istintiva per Benjamin come per Leopardi, consiste nel tendersi, nell’accovacciarsi su ciò che rimane e non su ciò che preme all’orizzonte. Trattenere le rovine, conservarle, ciò che i greci avevano indicato con il termine katéchon, letteralmente «il tempo dilatato della proiezione escatologica e apocalittica dell’esperienza terrena». Un dondolio dilatato che vive di ciò che potrebbe essere e non è stato, non è ancora o non sarà mai. O in alternativa è, sarà, continuerà a essere.
«Perciò la noia è poco nota agli uomini di nessun momento, e pochissimo o nulla agli altri animali».