Il Ristagno

Introduzione n. 33

Una pagina di follia (1926) di Teinosuke Kinugasa

Una delle particolarità del libro oracolare cinese dell’I Ching, a mio avviso una virtù, è la sua avversione nei confronti dell’equilibrio e dell’eccessiva armonia. Gli ultimi due simboli si invertono di posto creando una contorsione logica, in cui “Dopo il compimento” è il penultimo capitolo e “Prima del compimento” viene per ultimo. Altro esempio: gli esagrammi senza linee mobili, apparentemente più solidi, sono in realtà fragili e costretti a ribaltarsi nel loro opposto.

Anche il tema del Ristagno dimostra questa propensione dell’I Ching verso l’asimmetria, poiché l’esagramma in cui le tre linee in basso, tutte Yin, simboleggiano la Terra (Kunn) e le tre in alto, tutte Yang, il Cielo (Chen) anziché suggerire la cosmesi dei propri elementi ben definiti nel loro luogo naturale, ci legge piuttosto il rischio di una stasi nociva e un lacerante distacco nei propri fattori ambientali. Il Ristagno è dunque il simbolo che racconta una deriva esistenziale causata dalla separazione fra cielo e terra.

L’ultimo imperatore (1987), di Bertolucci

La storia culturale cinese è andata incontro esattamente a questo destino, quando soggiogata nell’Ottocento dalle potenze straniere, dal malgoverno di imperatori bambini e dal dispotismo di consiglieri arrivisti ed eminenze grigie – la cui figura più inquietante è l’imperatrice madre Cixi che governò con pugno di ferro, disinteressandosi della politica sociale – la Cina finì spaccata in due tra il sommovimento terrigno delle classi povere che portò prima al nazionalismo di Chiang Kai-shek e poi alla nascita della Repubblica popolare, e il “Popolo del Cielo”, la classe aristocratica, ormai avulsa e astratta dalla Realpolitik. Iconica la scena di Bertolucci, quando le truppe del Kuomintang vengono a detronizzare Pu Yi, l’ultimo imperatore, e sorprendono la casta di nobili ignari intenti a giocare a tennis nella Città proibita mentre la Cina è in preda alla rivoluzione.

I veggenti direbbero che il triste epilogo era in serbo da lungo tempo. L’Estremo Oriente è permeato infatti dalla visione del Kali Yuga, che nella cultura vedica e induista rappresenta la fine del ciclo delle ere cosmiche il quale cede il passo a un periodo di degrado, crisi e disfacimento. Il Kali Yuga inizia con la morte di Kṛṣṇa e perdura, ahinoi, fino all’arrivo di Kalki, l’ultimo avatar di Viṣṇu che farà il suo ingresso alla John Wayne su un cavallo bianco e con spada fiammeggiante in mano per dissipare le tenebre.

Una raffigurazione del Kali Yuga

Certo, i tempi d’attesa sono lunghi quasi quanto quelli delle poste o dell’agenzia delle entrate, visto che il calendario indù computa 432.000 anni per lo yuga finale, che si dovrebbe perciò concludere nel 428.899 d.C. Ma niente paura, il per nulla controverso storico delle religioni René Guenon ha rifatto per bene i calcoli scovando qualche errorino di riporto e correggendo il risultato fissandolo alla fine del secondo millennio. Ora, siamo nel 2024 e non vedo segnali granché positivi. La Cina persiste nel suo imperialismo, comprandosi sottobanco i porti e le infrastrutture del terzo mondo per rendere la sua influenza capillare, Xi Jinping spende promesse verso le isole del Pacifico, timorate di venir sommerse dal riscaldamento globale, in procinto di renderle dipendenti da Pechino. Come non bastasse, calpesta ogni diritto alla libertà individuale. L’India supera demograficamente la rivale senza riuscire a migliorare le condizioni di vita dei suoi abitanti e mal distribuendo la ricchezza concentrata al 50% nelle mani del 3% della popolazione. Della Russia non ne parliamo, del Medio Oriente tanto meno. Questo solo per limitarsi all’Asia.

Tornando a noi, la teoria del Kali Yuga ha molto influenzato la cultura cinese, attraverso la rielaborazione buddhista del Mòfǎ, termine che indica gli ultimi giorni della Legge di Shakyamuni (Siddharta) e la fine del Dharma, a contrassegnare un’epoca di conflitti ed esacerbazione.

Come spesso accade, il flusso tematico che nasce a monte sull’Himalaya e scorre a valle traverso i fiumi cinesi, ha come estuario la cultura giapponese che eredita il Mòfǎ ribattezzandolo Mappō, a indicare appunto l’attuale periodo storico di dissesto e recessione e sposandolo all’estetica nipponica già incline al gusto per la rovina, la ruggine e la decadenza, dalle cifre artistiche del wabi-sabi, al romanzo di Kawabata La bellezza sfiorisce presto, alla colonna del tempio di Nikko che fu ribaltata apposta dagli architetti per impreziosire l’opera con un tocco d’imperfezione.

Un esempio dell’estetica del Wabi Sabi

Il folklore autoctono giapponese era già animato dal tema del ristagno, soprattutto nelle vesti del Kappa, un mostriciattolo lacustre un po’ umanoide, mezzo scimmia e mezzo rana, che si nasconde nei laghi e nelle paludi per aggredire i contadini, mangiarsi i bambini e violentare le donne grazie alla sua immensa forza che si deve all’acqua contenuta nella cavità in cima alla sua testa.

Il grande scrittore Ryūnosuke Akutagawa ha preso spunto da queste figure, per scrivere un pamphlet satirico il cui protagonista piomba per sbaglio nella città dei Kappa e la scopre diretta da una società distopica che fa la caricatura a quella umana, in cui domina la tecnologia e l’iperproduzione, in cui vige la Legge per il Macello degli Operai atta a risolvere la disoccupazione con metodi alla Swift, dove aleggia la religione del Modernismo e del Culto della Vita coi suoi santi (San Strindberg, San Nietzsche, San Tolstoj, San Wagner), e dove l’alto grado di evoluzione dei Kappa sancisce la loro eterna infelicità. Quando il protagonista, tornato nella civiltà umana, riferirà quanto visto, verrà subito internato in psichiatria e, come l’Oskar del Tamburo di latta, racconterà farneticando la sua storia.

Dalla posizione alienata del manicomio, come nel film giapponese Una pagina di follia di Kinugasa, sarà finalmente in grado di vedere le cose come stanno, esprimendo un commento che calza bene con l’immagine e il significato del Ristagno contenuti nell’I Ching:

«Stavo solo provando a guardare il mondo alla rovescia, la solita vista è così sconfortante… Ma mi pare lo sia altrettanto quella capovolta!»

Ukiyo-e raffigurante il mostruoso Kappa

Autore

  • Federico Filippo si risveglia dal sonno dogmatico nella bella facoltà di Filosofia in Statale e si riaddormenta con gli studi a Venezia. Tornato a Milano, dopo il gong della laurea in Scienze Filosofiche, inizia collaborazioni con la cattedra di Estetica e nel frattempo, in fuga dall’accademismo, ha la fortuna di radunare un gruppo di ragazzi pieni di stoffa e fondare la rivista di arte e cultura La Tigre di Carta, cui segue l’Associazione culturale La Taiga che gestisce il teatro e circolo culturale Corte dei Miracoli. Fra editoria ed eventi, gioca col violoncello il bridge e lo yoga. Tutto ciò non fa bene alla salute... meglio scrivere!

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