Dove tutto è di tutti

Di Jung e dell’inconscio collettivo



All’interno de L’io e l’inconscio [1], Jung descrive brevemente il caso di una sua paziente, una studentessa di filosofia, avuta in cura anni prima: era arrivata da lui perché affetta da nevrosi. La nevrosi le derivava da un rapporto lirico, assoluto, privilegiato, dunque edipico, con il proprio padre, un caso piuttosto comune di complesso paterno. Durante il trattamento analitico la ragazza trasferì su Jung il carico edipico, trasferì cioè su di lui l’immagine del padre, l’equivalente dell’uomo che non le era possibile raggiungere. Il medico diventò, ai suoi occhi, una figura amatissima, con la quale, tuttavia, non si sarebbe mai potuto consumare alcunché: sarebbe rimasta a fluttuare indefinitamente in un cielo etereo e bianco, un pallone aerostatico nella galassia di ciò che non evolve e non muta, di ciò che non si farà mai carne.

Jung testimonia qui i sogni della paziente: immagini, vedute di un uomo – talora il medico, talora il padre, essendosi i due fusi insieme – di vertiginosa statura, irto su paesaggi naturali, spesso in cima a un colle. Al di sotto, sconfinato, un campo di grano. La giovane era piccina, minuta rispetto a questo signore così alto, al punto da farsi tenere in braccio, da farsi cullare, al ritmo delle spighe al vento.

È a questo punto che Jung capisce, intuisce una verità destinata a cambiare il corso del suo destino di psicoterapeuta e della psicanalisi stessa: la ragazza non stava più sognando il proprio padre, né il proprio medico. Stava sognando Dio. Era Dio colui che la cingeva, sollevandola di peso dal suolo, immenso, onnipotente quanto il mondo ai suoi piedi.



Nonostante la paziente fosse atea, nel senso di agnostica, e da tempo avesse abiurato alla possibilità di attribuire a dio una rappresentazione, l’idea di Dio subentrò all’interno del suo inconscio, deposito di una costituzione mentale arcaica che dunque la precedeva.

Jung estende la definizione che Freud aveva dato fino ad allora di inconscio: l’inconscio non si limita ad assorbire, dentro di sé, contenuti rimossi, cioè cancellati, dalla maggior parte di noi, durante la nostra vita diurna. Questo tipo di inconscio è strettamente personale. Appartiene al singolo, al mondo dell’Io, «suscettibile ed egoistico agglomerato di desideri, timori, speranze e ambizioni personali». Esiste però anche un inconscio collettivo, che pertanto appartiene a tutti e che è proprio di tutti, comprendente elementi in forma di categorie ereditarie o di archetipi. Il sogno della studentessa di filosofia rientra esattamente in questo tipo di sedimento primordiale.

L’inconscio è una delle forze più antiche, immote e ancestrali a nostra disposizione. È forse lo stesso inconscio ad avere suggerito alla coscienza primitiva la necessità, l’esigenza di un dio, di forze cioè non terrene che regolassero, che compensassero gli avvenimenti inspiegabili che vedeva svolgersi intorno a sé, e in effetti è ciò che continua a fare tutt’ora, inconsciamente appunto, perché le fredde spiegazioni tecniche, scientifiche e razionalistiche non sono sufficienti per l’uomo, anche se egli non lo sa, o almeno, non crede di saperlo. Il desiderio di dio è uno dei motivi più imperituri e inesauribili dell’inconscio collettivo [2].



L’umanità ha inciso nell’inconscio i suoi aspetti più immortali. «La nostra vita è infatti la stessa che è sempre stata in eterno… i medesimi processi fisiologici e psicologici propri dell’uomo da centinaia di migliaia di anni durano tuttora e danno al sentimento interiore la profonda intuizione dell’eterna continuità di quel che vive». 

Per questo possiamo riconoscere in un normale cittadino del XXI secolo credenze, superstizioni, atteggiamenti che credevamo sepolti. Istinti aggressivi preistorici, vecchie abitudini, coazioni a ripetere. È come se ogni categoria, ogni gruppo sociale, ogni famiglia condivida uno spettro di emozioni, di codici, una prammatica comune, insomma, che attraversa le generazioni e potrebbe non risalire mai la soggettività o l’io.

Ma l’inconscio non si limita a svelare nozioni meramente antropologiche sul conto della specie. L’inconscio dispone di una funzione creatrice, come in un altro esempio citato da Jung a proposito di un paziente che, a seguito di una delusione amorosa, si sporgeva sulle rive del fiume della sua città, deciso ad ammazzarsi. Inaspettatamente «gli parve che le stelle scendessero a coppie lungo il fiume […] e si accorse che ogni stella era un volto e che queste coppie erano coppie d’amanti che passavano sognando, tenendosi abbracciati». Egli non desiderava davvero porre fine alla sua vita, l’inconscio gli era venuto in aiuto, lo aveva soccorso, provvedendo a fornirgli un’immagine di bellezza eterna, forse dantesca, azzarda Jung, di cui non era assolutamente consapevole, né sapeva di celare dentro di sé. Naturalmente, nel caso di un singolo uomo visioni di questo tipo sono spesso il prodromo sventurato di schizofrenie, dissociazioni e psicosi. Ma quando è l’inconscio collettivo di un popolo ad agire, l’inconscio collettivo di un’epoca, per dirla con Heidegger, allora gli impulsi di volta in volta di vita o di morte, di distruzione o di sopravvivenza, di romanticismo o di misticismo, cambiano le sorti della storia. Decidono il corso degli eventi, imprimono l’andatura di un secolo.



E soprattutto, l’inconscio è in grado di precorrere, prevenire il futuro. Il padre di una bambina avvicinò Jung [3]. Voleva mostrargli i suoi disegni. Osservandoli attentamente, Jung si rese conto che la bambina era in procinto di morire, anche se non ebbe, lì per lì, il coraggio di pronunciare ad alta voce questa sentenza. In effetti, questo fu ciò che accadde pochi mesi dopo. L’inconscio della bambina presentiva la sua fine. Certo è che l’inconscio si impone alla coscienza. Impone la sua presenza, anche se diversamente a seconda dei casi, con più o meno delicatezza, in maniera più o meno violenta, più o meno ambigua.  

Pensiamo a un cerchio, che si espande a seconda di ciò che racchiude al suo interno. La circonferenza più estesa corrisponde all’inconscio umano, all’inconscio del mondo, che riguarda tutti. Poi, in scala via via ridotta, le varie differenze, le particolarità, i destini individuali, legati ad esempio alla provenienza geografica, all’Oriente o all’Occidente, al genere maschile o femminile. Il frammento apparentemente infinitesimale, più piccolo, è l’uomo, con il suo carico specifico di segreti, debolezze, ossessioni, concupiscenze, idiosincrasie. Eppure, solo attraverso di esso, solo mediante la sua interpretazione, la sua analisi, è gradualmente possibile elaborare anche i contenuti dell’inconscio collettivo, i più sempiterni, incessanti, inestinguibili. Naturalmente, questo non riesce a tutti gli uomini. Esistono interi strati della popolazione che giacciono in una notoria inconsapevolezza e nonostante questo non diventano nevrotici.

Lo slancio verso una più elevata coscienza concerne i cosiddetti «superiori», che riescono a condizionare l’inconscio dei loro contemporanei, pur sapendo che gli effetti emergeranno o potrebbero emergere anche dopo due, tre generazioni. Gli altri imbastiranno un processo terapeutico volto solamente ad alleggerire, a correggere il rapporto privato con gli affetti e i famigliari, con le attività amorose e lavorative, con ciò che insomma li circonda e instaura con loro un rapporto diretto. L’inconscio personale sta all’inconscio collettivo come l’individuo alla società. Saputo questo, la psiche diventa in tutto e per tutto un fatto politico. I cambiamenti della comune sensibilità, che conducono a considerare bestiale, inaccettabile ciò che una volta sarebbe stato integrato, perfettamente ovvio, normale provengono da un lento sedimentarsi nell’inconscio di qualcosa di nuovo.



Da dove, da quale momento, in quale precisa circostanza le cose abbiano cominciato a convertirsi, non è chiaro. Progressivamente, impercettibilmente, a questo alterarsi della sensibilità, a questo suo smottamento apparentemente incidentale, corrisponderanno delle azioni. L’inconscio è dunque il solo mezzo, la sola risposta, la sola soluzione alle crisi del tempo. È l’accesso a una «comunione con il mondo… incondizionata, impegnativa, indissolubile».

di Benedetta Barone

NOTE
[1] C. G. Jung, L’io e l’inconscio, Bollati Boringhieri, Torino, 2022
[2] C. G. Jung, Presente e futuro, in Realtà dell’anima, Bollati Boringhieri, Torino, 1978
[3] P. Barone, Il bisogno di introversione, Cortina, Milano, 2023

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