Da bambina pensavo che fosse un grosso mirino.
Non avevo tutti i torti: un tempo lo fu.
Via Acca Larentia a Roma è una strada tristemente nota. Qui il 7 gennaio 1978 due giovani del Fronte della gioventù – Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta – vennero uccisi di fronte alla sede del Movimento Sociale Italiano. Poco dopo questo omicidio la destra accorse da tutte le parti della città per una manifestazione non autorizzata, che portò a scontri con le forze dell’ordine, fu in questa occasione che venne uccisa la cosiddetta “vittima collaterale” di Acca Larentia, Stefano Recchioni. Da quel giorno il 7 gennaio rappresenta una data importante per l’estrema destra, che si ritrova ogni anno puntuale per celebrare la cerimonia del “presente”.
Sono passati quasi cinquant’anni, eppure mentre mi accingo a leggere Dalla stessa parte di troverai, uno dei 12 romanzi finalisti al Premio Strega (poi escluso dalla cinquina finalista), edito da SEM libri, la Corte di Cassazione ha da qualche mese stabilito che il saluto romano non è reato se si tratta di una commemorazione. Il casus che ha dato origine a questa sentenza riguarda otto persone, imputate e condannate in due gradi di giudizio per aver fatto il saluto romano alla commemorazione milanese del 2016 per Sergio Ramelli, fascista assassinato durante gli anni di piombo.
Da Roma a Milano, il filo nero che unisce la nostalgia per la dittatura fascista fa da scenario alla contemporaneità politica di ieri, oggi – e chissà probabilmente anche domani. Ecco perché bisogna fare una premessa importante alla lettura del romanzo di Valentina Mira: più che un romanzo, è un libro che si affaccia sulla realtà con qualche libertà e licenza poetica. Lo fa partendo dall’esperienza, personale e dolorosa, di chi ha avuto a che fare suo malgrado con l’odio fascista. Il tono di voce risulta diretto, risentendo però di quella velocità di comunicazione a cui i social ci hanno abituato.
Come racconta l’autrice, la croce celtica di via Acca Larentia è visibile da Google Maps, eppure Valentina Mira a una commemorazione fascista ci capita per caso. Abita nel quartiere, è una studentessa del liceo che vive ancora felicemente inconsapevole della cronaca politica – come solo si riesce alla soglia dei sedici anni – ma la marea di teste rasate che levano le mani all’unisono di un grido cameratesco le gela il sangue.
È il 2008, al governo come Presidente del Consiglio siede Silvio Berlusconi e sotto quel cielo plumbeo di gennaio i telegiornali riportano che a deporre una corona di fiori c’è una giovane Ministra della Gioventù: si chiama Giorgia Meloni. Come passa il tempo quando ci si diverte.
Malgrado questa premessa, Dalla stessa parte mi troverai racconta soprattutto di una storia d’amore: quella di Mario Scrocca e Rossella Scarponi.
Lui è un giovane militante di sinistra dai capelli ricci e discutibili baffetti (se oggi la moda giovanile impone i capelli di Mare Fuori, una volta per gli adolescenti di sinistra era Mario Moretti a dettare – suo malgrado – la tendenza), lei una quindicenne bionda dagli occhi azzurri. Sono due ragazzi di periferia che si innamorano sulla fine degli anni Settanta sullo sfondo delle case occupate di Tor Pignattara. È una Roma vibrante di attivismo e gioventù, che, sebbene sia martoriata dagli anni di piombo, fa da quinta al racconto dei due giovani innamorati in motorino che sembrano usciti da Il tempo delle mele. Finché non arriva la cronaca a rompere l’idillio.
Mario verrà ritenuto coinvolto negli omicidi del 7 gennaio 1978, arrestato e trovato impiccato in una cella anti-impiccagione del carcere di Regina Coeli, il tutto in meno di ventiquattr’ore, senza prove e con dieci anni di ritardo rispetto ai fatti di cui è accusato. A sopravvivergli sono sua moglie e suo figlio Tiziano, che all’epoca dei fatti ha appena due anni ed è troppo piccolo per capire il buco nero che ha risucchiato suo padre. Ed è qui che emerge la vera eroina di questo racconto: Rossella Scarponi. Rimasta sola, con un figlio piccolo e una vita intera da ricostruire non è in grado di combattere una battaglia contro lo Stato Italiano, ma non smette di amare Mario, di raccontare la sua storia, di chiedere giustizia.
Passano gli anni e quel bambino piccolo che le si stringeva addosso chiedendole che fine avesse fatto papà è diventato adulto e non è più semplice trovare una risposta alle sue domande. Sono due generazioni a confronto: da un lato chi ha vissuto i propri anni più belli nel periodo delle contestazioni politiche e degli idealismi, dall’altro chi è nato alla fine degli anni ’80 e forse non può afferrare fino in fondo il senso di quegli anni. Non è facile parlare degli anni di piombo, ogni volta che si prova a descrivere una strage o un omicidio sono più le domande irrisolte di quelle a cui si è trovata risposta, anche se a distanza di anni, quei fatti sembrano sempre di più una matassa che continua ad aggrovigliarsi. Il romanzo non dà un quadro complesso di quegli anni, li semplifica. L’opera dipinge i due poli – “rossi” e “neri” – e in questa dicotomia non resta spazio per le sfumature.
Il narratore interno all’opera dialoga con Rossella e si presta generosamente a dare voce al suo racconto, restituendone il dolore e il senso di abbandono da parte delle istituzioni. Come Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi e gli altri, la morte di Mario Scrocca è un pagina nera della cronaca carceraria e di quel castello di omissioni che lascia le famiglie spezzate e impotenti. Il romanzo fa emergere il vigore con cui Rossella ha portato avanti la sua battaglia per quasi quarant’anni, alternando autofiction e romanticizzazione della vicenda, provando ad aprire uno spiraglio di luce su una storia che presenta ancora troppi aspetti irrisolti.
Mi interessa vivere in situazioni in cui il negazionismo non ha spazio perché noi non glielo lasciamo più. Mi interessa, sì, che i fascisti non ottengano il perdono di nessuno.
Al dramma di Rossella se ne aggiunge un altro, altrettanto intimo e personale: quello dell’autrice e delle cicatrici che il fascismo le ha lasciato: una relazione violenta. In questo racconto post traumatico le parole assumono un valore terapeutico sulla violenza subita – della sua vicenda e dello stupro, Mira ne aveva già parlato in X, pubblicato nel 2021 da Fandango e ha anche spiegato bene come si debba parlare di certi temi. Nel suo secondo libro però aggiunge un tassello in più, una similitudine tanto lampante quanto spaventosa: il fascismo si comporta come una relazione tossica. Altera la realtà dei fatti, mistifica e nasconde la violenza, fa gaslighting, si dipinge come la vittima e finge di parlare la lingua dell’altro per sfruttarlo.
C’è una voce che emerge potentemente da queste pagine ed è quella della rivendicazione. Il rischio di lasciare che la narrazione storica venga manipolata, alterata e ribaltata dai fascisti è, secondo l’autrice, un rischio attuale, sebbene il tentativo sia nascosto o goffamente malcelato. Dunque è fondamentale riscoprire la propria voce di vittime, di donne, di antifascisti.
L’unica lezione che ho imparato sul fascismo dai fascisti della mia vita: Io non ti perdono, e non ti perdonerò mai.
Alla fine del libro risulta fin troppo chiaro perché alla destra non sia andata giù la sua candidatura allo Strega, e si sia lanciata in attacchi anche personali verso chi l’ha scritto, peraltro un’autrice donna, femminista e politicamente schierata a sinistra. Se non altro, non corre il rischio di essere letta dal ministro Sangiuliano, né ieri né oggi.
di Elena D’Alì
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