«Questo è un ricordo indimenticabile perché al fiume tutti e tre insieme non ci siamo più andati. Comunque per me tutti i ricordi sono indimenticabili e io non voglio dimenticarne nessuno».[1] Si chiude così il tema scolastico “Un ricordo indimenticabile” svolto da Francesca Pellegrini, alias Ester Sacerdoti, undicenne protagonista di Aggiustare l’universo. L’autrice Raffaella Romagnolo sfrutta alcuni escamotage narrativi (come appunto i pensierini scritti dalle alunne, gli appunti delle lezioni della maestra, alcuni titoli di giornali dell’epoca e altri documenti storici di rilevante interesse) per dar voce ai suoi personaggi e all’ambiente sociopolitico in cui si muovono. Da qui la mia decisione di riportare direttamente le parole della giovanissima protagonista: solleva temi pregnanti, direi focali, presenti in tutto il romanzo.
L’intera vicenda è narrata secondo un intreccio di linee temporali: la prima, la linea temporale del presente, si snoda lungo tutto l’anno scolastico 1945-46, il primo anno dopo la fine della guerra. Nel corso di questi tre trimestri, la maestra Gilla si occupa della classe che le è stata affidata, una quinta elementare femminile, prendendo su di sé l’onore di “aggiustare l’universo”. L’ambivalenza di questa espressione, che funge da titolo per l’intero romanzo, è di grande spessore: la giovane insegnante trova un vecchio planetario e decide di ripararlo, in modo da poter preparare una lezione alle sue allieve sull’universo. Per far ciò, l’universo deve essere aggiustato; tuttavia, c’è un secondo significato, figurativamente parlando, e lo si ritrova fin dalle prime pagine. «[Gilla] vorrebbe alzarsi e urlargli in faccia, a lui, a tutti: “La guerra è finita!”. Invece resta seduta e zitta. Lascia correre lo sguardo tutt’intorno. La devastazione. La devastazione e tutto il lavoro che resta da fare. Allora afferra il foglio con malagrazia, lo compila e lo firma»[2].
Così appare il mondo quell’autunno del 1945, come il vecchio planetario. Qualcuno deve iniziare ad aggiustare e, all’interno del piccolo universo che è la 5^D, Gilla aggiusta. Una delle sue alunne, con cui creerà un forte legame, è proprio Ester Sacerdoti/Francesca Pellegrini, altra protagonista del libro, le cui vicende personali e familiari sono narrate nella seconda linea temporale: essa parte dal 1938 e, sul finale, arriva a congiungersi con il presente narrato. Non è affatto necessario, in questa sede, dilungarsi in un’illustrazione puntuale degli episodi che si snodano nel corso degli anni per la piccola Ester e la sua sciagurata famiglia: un lettore avveduto può, da sé, con facilità intuire la piega che prendono gli eventi e le terribili conseguenze per queste persone, uomini e donne, anziani e bambini, che avevano la sola colpa di essere ebrei. Si tratta invero di un romanzo, un racconto di finzione, che offre oltretutto numerose sfumature al lieto fine, anche ai personaggi più insperati, come il gatto di cui la piccola Ester si prende cura, il quale ha finalmente un nome.
A proposito di nomi, Romagnolo presenta numerosi personaggi che cambiano nome e offre così una riflessione ad ampio raggio sul potere dei nomi che ci attribuiamo: a volte essi nascondono la nostra identità, altre volte invece la manifestano. Il caso più esemplare è quello appunto della protagonista, nata Ester Sacerdoti ma obbligata, insieme ai membri della sua famiglia, a utilizzare nomi e documenti falsi per sfuggire alle persecuzioni. Diventa così Francesca Pellegrini, ma la giovane non riconosce il suo nome, sostiene di non voler dire le bugie, così tace e il suo mutismo rispetto non solo al suo nome e al suo passato, ma in toto, crea non poche difficoltà. Non a caso, rompe il proprio mutismo davanti alla classe nell’atto di affermare se stessa: il proprio nome.
È presente un altro personaggio (o forse più correttamente bisognerebbe affermare che è presente la sua assenza, in quanto morto tempo addietro) che permette a Romagnolo di articolare maggiormente la riflessione sul potere dei nomi, in questa storia: si tratta di Michele, il partigiano di cui Gilla era innamorata e ricambiata. Di questo ragazzo non conosciamo il vero nome, ma solo quello “d’elezione”, “Michele” appunto, nome scelto da lui stesso in quanto portato dal nonno, persona assai stimata, che senz’altro avrebbe sostenuto le sue scelte nella lotta partigiana. I genitori di Michele, al contrario, non sembrano altrettanto supportivi; così, nella sua decisione di portare il nome del nonno come “nome da partigiano”, Michele afferma la propria identità, discostandosi dalla propria famiglia e dalle loro inclinazioni politiche.
Né Gilla, né tantomeno noi lettori, conoscono il “vero” nome di Michele: esso è il suo nome, perché il ragazzo si identifica in esso. In questo caso non è presente il dilemma etico che invece affligge Ester/Francesca: Francesca tace perché Ester non vuole dire le bugie. Francesca non è il vero nome della bambina, quest’ultima non lo riconosce come proprio; tuttavia, Francesca è costretta ad esistere perché Ester sia protetta e non corra pericoli, e, ciò nonostante, la bambina mostra grande insofferenza a riguardo.
In misura assai velata, è presente in Aggiustare l’universo anche la riflessione in merito alla spersonalizzazione che si verificava nei campi di concentramento, dal momento dell’attribuzione del numero, tatuato sul braccio dei deportati nei campi. Stiamo parlando in questo caso del padre di Ester, Abram Sacerdoti, il quale ricorda il nome dei membri della propria famiglia con l’indefessa convinzione, tipicamente umana, di rivederli e riabbracciarli tutti, sentendosi chiamare, con il proprio nome, come un uomo, libero e degno.
Il tema della memoria è centrale e attraversa tutto il testo, a partire dall’impostazione stessa dei capitoli del libro, che accompagnano i lettori nel passato dei personaggi, rinfocolando assiduamente la speranza che i fili si ricongiungano e venga il sospirato lieto fine. A proposito di finale, l’ultimo “pensierino” che la maestra attribuisce come compito alla classe è in merito al pianeta Venere: la lezione è stata l’occasione per riflettere sui vari nomi e significati che a questo pianeta sono stati attribuiti nel corso del tempo, così le bambine hanno l’incarico di cercare nel cielo Venere, la sera, e scrivere che nome attribuirebbero loro al pianeta. «Ditemelo voi cosa c’entra. Qual è la vostra opinione? […] Lo so che è difficile, la cosa più difficile del mondo. Ma fatevi un’idea vostra»[3]. L’idea di Ester è che cambiare nome a Venere non sia un proposito saggio: tutti sanno che devono chiamarlo così, sarebbe confusionario cambiarlo. Ester qui coglie un concetto importantissimo: il nome è convenzione. È uno strumento linguistico a cui ci affidiamo affinché ci sia stabilità e coerenza, perché gli uomini si muovano più agilmente nel mondo delle cose, concrete o astratte che siano.
Eppure, la vita è tutta cambiamento, è tutta rivoluzione: Raffaella Romagnolo è stata abile nell’offrire questo tipo di riflessioni, a porci questa chiave di accesso all’interpretazione dei personaggi e delle loro dinamiche, in modo impattante e al contempo leggero, distensivo.
Si tratta di un romanzo, una storia di finzione, narrata da una prosatrice capace di accarezzare i propri personaggi e i propri lettori al contempo: Romagnolo consolida il proprio stile trasmettendoci una storia affascinante e dolorosa, ricca di personaggi memorabili, teneri e caparbi nel loro sforzo di lottare contro un destino di ingiustizie e barbarie, che noi abbiamo la (s)fortuna di conoscere, prima di loro, dalla Storia.
Nel corso della lettura, mi sono domandata spesso se fosse possibile scrivere romanzi ambientati in un momento storico così delicato, così traumatico. Una prima, ovvia, risposta è stata: certo che è possibile, Romagnolo lo ha fatto e prima di lei moltissimi altri. Eppure, il pungolo non passava e più mi focalizzavo nella lettura, più le domande si facevano assillanti: è traumatico ciò che sto leggendo o ciò che è avvenuto e che ha ispirato il romanzo? Indubbiamente ciò che è avvenuto ha causato un trauma sociale, collettivo, di cui perpetuiamo la memoria, affinché non si dimentichi, affinché il dolore, lo sbigottimento, l’angoscia si continui a provare. La ratio è combattere l’intoccabilità del fatto, il tabù, affinché non ci si adagi sulla tendenza ad evitare il dolore: siamo umani, non desideriamo la sofferenza… A maggior ragione durante un’attività di svago, quale possa essere la lettura di un romanzo. Ciò è totalmente comprensibile, ma bisogna star vigili, in modo da combattere il rischio di un atteggiamento evitante collettivo.
Ben vengano allora i romanzi come Aggiustare l’universo, in cui il distacco finzionale e il lieto fine permettono al lettore un approccio alla Storia meno traumatico. Forse anche meno autentico, ma sicuramente informativo, perciò importante: permette di continuare a parlarne. La piccola Ester nel corso dell’anno scolastico non parla mai, vittima di paura, sconforto e rabbia: quando ritrova i genitori, un’amica e una persona fidata come la maestra Gilla, è di nuovo un fiume in piena, le parole non le mancano. Mancano invece a suo padre, il quale dopo l’estenuante esperienza dei campi di concentramento e il faticosissimo rientro a casa non riesce a parlare, non riesce a concentrarsi sulle parole degli altri. Una cosa però la sente: si tratta di gratitudine. Esattamente quello che si prova riflettendo al termine della lettura di questo romanzo di Romagnolo. Grazie, perciò, a chi si assume l’incarico di narrare.
Non esistono storie vere e storie inventate: una narrazione oggettiva non esiste, è sempre presente uno sforzo rielaborativo, un filtro da parte di chi legge e da parte di chi scrive. La parola non è uno strumento molto affidabile per trasmettere la nostra memoria, il passato, eppure noi uomini lo facciamo lo stesso, lo facciamo da sempre. Continuiamo a farlo.
Di Silvia Falcione
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[1] Raffaella Romagnolo, Aggiustare l’universo, Mondadori, Milano, 2023, p 115.
[2] Ivi, p 12 (corsivo mio).
[3] Ivi, p 332-333.