Niente di nuovo sul fronte occidentale: recensione a un film inattuale




Maggio 1917. È notte, il bosco è immerso nella nebbia, una leggera pioggia primaverile crepita sulle foglie, una volpe allatta i suoi cuccioli. Un rombo sordo echeggia in lontananza, la volpe drizza le orecchie sul chi-va-là, la mattina è giunta. Stacco.

Inizia così Niente di nuovo sul fronte occidentale, film di Edward Berger uscito nel 2022, adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Erich Maria Remarque. Il film racconta la storia di un gruppo di quattro amici, giovani studenti tedeschi, che si arruolano per andare a combattere la Prima guerra mondiale. Inebriati di nazionalismo, strenuamente convinti che nel giro di poche settimane entreranno trionfalmente a Parigi, i quattro si scontrano con una realtà molto meno eroica di quella immaginata. Fango, sangue e merda: così si potrebbe riassumere la vita – e la morte – nelle trincee.

Il tema non è nuovo. Molte sono le opere che affrontano e criticano lo scollamento tra l’ideologia militarista che celebra la guerra – dulce et decorum est pro patria mori – e la brutalità dei combattimenti, specie di quell’immane carneficina che fu la Prima guerra mondiale. Tuttavia questo film merita attenzione, e non solo per gli indiscutibili pregi cinematografici.

A differenza del precedente adattamento uscito nel 1979, infatti, oggi non ci troviamo più immersi in quella sorta di pax Europae che ha fatto da collante ideologico alla costruzione dell’Unione Europea negli ultimi decenni. Una pax che sorgeva sulle macerie del secondo conflitto del mondo, combattuto in larga parte in Europa (anche se non solo in Europa: basti pensare al nord Africa e all’Estremo Oriente), e che aveva segnato profondamente – come si usa dire in questi casi – la coscienza collettiva. Mai più guerra: questo l’auspicio diffuso nei decenni dopo la fine della Seconda guerra mondiale.

Naturalmente anche il rifiuto della guerra, per quanto retoricamente efficace, andava preso con le pinze. Intanto perché le guerre sul globo non sono mai terminate. La pace reggeva entro i confini – e solo entro i confini! – dell’Europa. E non che altrove i popoli in guerra fossero dei barbari non ancora rischiarati dall’illuministica coscienza che la pace è preferibile alla guerra. È più semplicemente che la fine della guerra aveva ridisegnato il mondo in blocchi contrapposti e le potenze europee erano private di qualsiasi autonomia decisionale. La guerra continuavano a farla, ma fuori dall’Europa, nelle ex colonie che nel frattempo avevano iniziato a lottare per liberarsi dal giogo che le opprimeva: Algeria, Marocco, Angola, Burkina Faso, Vietnam…

In secondo luogo perché il nanismo politico degli imperi ormai sulla via del tramonto li spingeva a siglare patti economici che non li escludessero in toto dalla competizione mondiale. Per dirla sinteticamente, l’Europa unita era il tentativo di risposta dei Paesi europei alla loro marginalizzazione. Un processo di unificazione economica che ha subito una potente accelerazione con la disintegrazione del blocco sovietico e la cui condizione necessaria, anche se non sufficiente, era l’assenza di conflitti combattuti sul continente.

Da qui, appunto, l’insistenza sull’Unione Europea come argine eretto contro la guerra, come istituzione che faceva della pace il proprio fondamento. E in effetti, in qualche modo – ossia chiudendo gli occhi davanti alla guerra nei Balcani degli anni Novanta e agli interventi militari in giro per il mondo al seguito degli USA (Somalia, Iraq, Afghanistan per citarne alcuni) –, la pace in Europa ha retto. Di più, ha garantito il più lungo periodo di pace nella storia del continente.



Figlio di una cultura radicalmente pacifista, Niente di nuovo sul fronte occidentale esprime questa consapevolezza, che cioè la guerra è una barbarie immonda e va evitata ad ogni costo. Sono passati diciotto mesi dall’arruolamento dei quattro ragazzi. Più precisamente è il 7 novembre 1918. L’armistizio di Compiegne, noi oggi lo sappiamo, arriverà pochi giorni dopo. La guerra quindi è ancora in corso e i momenti di requie nelle retrovie si alternano a feroci combattimenti per pochi metri di terra. La guerra di trincea, che oggi torniamo a vedere sui campi dell’Ucraina, non concede spazio per ariose manovre e grandi movimenti di truppe. Rintanati, i soldati aspettano l’ordine di muovere all’assalto, o il bombardamento nemico che forse li farà a pezzi.

È una dimensione straniante quella della trincea, e non solo per il tasso elevatissimo di violenza psicologica e fisica che i soldati sono costretti a sopportare. Piuttosto perché la trincea è un mondo nel mondo, una società nella società, separato dalla realtà “normale” e incomprensibile per chi non la vive.

«Eh Paul… Sai come andrà a finire? Quando un giorno torneremo la gente sarà solo curiosa di sapere com’era il combattimento corpo a corpo. Ci guarderanno come viaggiatori venuti dal passato».

A parlare è Stanislaus Katczinsky, commilitone e amico di Paul Bäumer, il personaggio principale del racconto. È uno dei momenti più intensi dell’intero film. Due soldati seduti su una tavolaccia di legno che fa da cesso nelle latrine del campo nelle retrovie che parlano. Qui si palesa con tutta la sua forza la dimensione totalizzante e alienante della guerra, una dimensione irriducibile al singolo evento (il combattimento corpo a corpo). Ed è significativo che a coglierla non sia Paul, lo studente partito pieno di nazionalistico entusiasmo, ma l’amico, un calzolaio analfabeta che si fa leggere dagli altri le lettere della moglie. Tuttavia, la guerra si fa anche per singoli eventi. Spinti dalla sua logica implacabile, a pochi giorni dalla fine delle ostilità i soldati sono mandati ancora a morire. Lo scontro è durissimo e costringe Paul a combattere corpo a corpo con un soldato francese. L’avrà vinta e il nemico sarà sopraffatto. La crudezza dello scontro però è tale da riscuotere Paul dagli automatismi interiorizzati in più di un anno di battaglie. In un lampo di consapevolezza sembra rendersi conto di ciò che ha fatto: ha tolto la vita a un essere umano e l’ha fatto in modo terribile, accoltellandolo e provando inutilmente a soffocarne i rantolii riempiendogli la bocca di fango. Un’agonia che dura interminabili minuti. Paul piange, si dispera, cerca di porre rimedio e di salvarlo, e alla fine di fronte all’irreparabile promette che avrà cura (in che modo? non son domande da farsi in quel frangente) della moglie e della figlia, la cui foto trova nel portafogli del soldato ucciso.

Le trattative politiche per l’armistizio intanto continuano. Dopo giorni di discussioni finalmente si giunge alla firma: la Germania cede alle richieste francesi. Il Kaiser nel frattempo ha abdicato, è stata proclamata la Repubblica, il vento della rivoluzione sociale soffia a Berlino. Le classi dirigenti tedesche sono spaccate. Anche all’interno dell’esercito non tutti gli ufficiali sono d’accordo con la cessazione della guerra. «La socialdemocrazia porterà il mondo alla rovina» dichiarerà un generale che non si rassegna alla sconfitta. A poche ore dal cessate il fuoco, coerentemente con il suo fanatismo, dà l’ordine di un ultimo inutile assalto. Tutte le reclute del settore vengono mobilitate. Novellini e veterani sono costretti, pena la fucilazione, a marciare contro le trincee nemiche.

Paul è tra questi. È stanco, sporco, emaciato, negli occhi non brilla più alcuna traccia di vita. En passant è questo uno degli elementi più apprezzabili del film: dopo mesi di guerra i soldati sono smunti, hanno denti gialli, sono insomma visibilmente segnati nel corpo dalle privazioni e dall’esperienza della guerra. Come un automa si dirige verso il nemico, corre, spara, lancia granate. Alla fine entra nella trincea francese e di nuovo un combattimento corpo a corpo. Mancano meno di cinque minuti all’ora X: le 11 del mattino del giorno 11 dell’undicesimo mese. Tedeschi e francesi si scontrano in un caos indescrivibile, ma ormai il conflitto è quasi finito. Forse Paul se la caverà anche questa volta…



Oggi, a più di cent’anni da quand’è ambientato il film, la guerra in Europa è tornata. Con l’invasione dell’Ucraina, la macchina bellica si è rimessa in moto. Armi, tecnologie, risorse, gli Stati europei si sono imbarcati nel conflitto in corso come non accadeva dalla Seconda guerra mondiale. Anche la propaganda fa la sua parte. Una lugubre cappa di militarismo è stata stesa dalle classi dirigenti sul continente, mostrificando il nemico e beatificando le “eroiche virtù” dei combattenti alleati: dulce et decorum est pro (libera et integra) patria mori. Certo, sessant’anni di pacifismo istituzionale non si cancellano con un colpo di spugna e al momento non sembra che le sirene belliciste riescano ad ammaliare più di tanto i popoli.

E però il conflitto continua e si estende e si approfondisce. Ogni giorno che passa la linea rossa dell’indicibile e dell’infattibile si sposta un po’ più in là, fino alla proposta di una“coalizione di volenterosi” a guida polacca che finalmente faccia “sporcar di fango” gli stivali dei soldati europei. Il vento sta cambiando e il pericolo di una terza guerra mondiale (o di una quarta visto che, come sostiene qualcuno, la terza è già stata combattuta ma a pezzi) si profila all’orizzonte come un’eventualità non più di tanto irrealistica.

In questa nuova temperie politica e culturale Niente di nuovo sul fronte occidentale è un film che merita attenzione perché ci ricorda la sozzura della guerra. Che non c’è niente di decoroso e di dolce nel farsi maciullare per la patria, e men che meno perché dei banditi possano decidere quale fetta di mondo gli spetta e quanto grande. E perché sia necessario lottare affinché la guerra esca finalmente dall’orizzonte della storia. Guerra alla guerra, questo è il più grande insegnamento che oggi si possa dare.

di Simone Coletto

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Autore

  • Laureato in Filosofia, in Scienze filosofiche e poi anche in Storia per onorare il proverbio secondo cui non ci può mai essere il due senza il tre, si occupa di politica mentre attende sia il momento di fare la rivoluzione. Nel frattempo fa anche MMA, per cui quando sarà il momento converrà essere dal suo stesso lato della barricata.

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