Dalla “poetica del pedinamento” all’erraticità di Pasolini
«La realtà vista e udita nel suo accadere
è sempre al tempo presente […]
Il cinema, di conseguenza, “riproduce il presente”»
Pier Paolo Pasolini
«Viandante» è participio presente perché un viandante è sempre preso in un divenire. Perciò un viandante non è mai un viaggiatore o un turista, né un pellegrino né un emigrato; perché si è viandanti solo e finché si va per una via, mai se ci si incammina lungo una strada.
La strada non è la via. La strada è un percorso realizzato e controllato da un potere istituzionale (polizie ed eserciti stanno sulle strade e mai lungo le vie). La via invece è un processo.
Chi scala è viandante finché traccia una via, passo dopo passo, roccia dopo roccia e tutti noi siamo viandanti della vita semplicemente solo finché viviamo e mentre viviamo, perché si è viandanti solo nell’assenza d’uno scopo che sia distinto dal processo, perché la notizia stessa di uno scopo ultimo (il viaggio, la ricerca di fortuna o del sacro) proietta il viandante nel futuro o nel passato, rendendo così diafano il procedere stesso e annullando la viandanza.
Può dunque il cinema essere viandante? Dipende.
A guardare i film hollywoodiani della Golden Age si direbbe di no. È stata questa l’età di un’infanzia dell’immagine cinematografica, un’età in cui il cinema seguiva una strada piuttosto che disegnare una via. Un’epoca ossessionata dal raggiungimento d’uno o più scopi. Ogni movimento di macchina e degli attori avveniva in spazi definiti e controllati (gli studios), tutti i personaggi erano ben delineati, era chiaro e distinto il ruolo di ciascuno di essi nell’economia della storia, anch’essa, del resto, concepita spesso per la propaganda o per scivolare lungo argini ben istituzionalizzati.
L’infanzia del cinema, insomma, è stata innanzitutto uno sbirciare dalla carrozzina spinta da una balia o, tutt’al più, un turismo dello sguardo.
Nel secondo dopoguerra, dopo la mattanza, un simile cinema non era più possibile. Non in Europa almeno. Appariva cosi col Neorealismo una nuova immagine filmica e un modo differente di far cinema (accolto e rivisitato poi dalla Nouvelle Vague francese e da altre «ondate» nazionali). Un cinema meno compresso da ansie di controllo e più sfuggente e vago. I film venivano fatti en plain-air, erano più soggetti a improvvisazioni e modifiche, erano meno istituzionali ed erano, soprattutto, film in cui (per citare Gilles Deleuze) «la situazione sensorio motrice è la passeggiata, l’andare a zonzo, l’andirivieni continuo».
Il Neorealismo rappresenta il momento di un cinema flaneur, di un cinema peripatetico e di pecorella smarrita o, se si vuole, l’ingresso del cinema nell’adolescenza (scapestrata).
Un cinema viandante nello spirito e nei personaggi. Si pensi all’insistenza sul girovagare di Umberto D, al viavai senza meta del ragazzino di Germania anno zero o alla passeggiata finale della Masina ne le Notti di Cabiria di Fellini.
Quest’ultimo non lo citiamo a caso perché fu uno dei primi film a cui collaborò alla sceneggiatura Pier Paolo Pasolini (PPP). Ecco, se c’è stato un momento in cui il cinema si è espresso come viandanza quello è stato con Pasolini. I registi neorealisti, infatti, avevano ancora un’ambizione, uno scopo (seppure vago) quello di farsi interpreti di un cinema morale, di un’arte al servizio del riscatto degli umili. Non a caso a proposito di Zavattini, interprete di quel cinema, si parla di «poetica del pedinamento» dei personaggi (gli umili vanno seguiti, curati). Nel cinema di Pasolini invece la questione morale è tangenziale rispetto a un’altra urgenza: il naturalismo cinematografico. Pasolini vuol realizzare un cinema che sia «il momento “scritto” di una lingua naturale e totale, che è l’agire nella realtà». Per Pasolini la realtà non è nient’altro «che del cinema in natura» e, viceversa, il cinema non è che una riproduzione della realtà attuale pertanto «Il cinema riproduce il presente».
Ecco, quello di Pasolini è un cinema del momento, un cinema della pura presenza e, pertanto, un cinema della viandanza nella sua essenza.
Viandanti assoluti sono i protagonisti dei suoi primi film di ambientazione contemporanea. Innanzitutto perché di estrazione sottoproletaria. La preferenza data a personaggi del sottoproletariato (Accattone, Mamma Roma, La ricotta e Uccellacci e Uccellini) non veniva solo dalla volontà di replicare i suoi successi letterari, bensì dalla consapevolezza che la vita dei sottoproletari si sviluppava al presente.
Mentre il proletariato infatti calava se stesso nel futuro perché aveva uno scopo (migliori condizioni di vita e lavoro o magari fare la Rivoluzione), il sottoproletario viveva invece alla giornata (vedi Accattone e Mamma Roma) inseguendo mille progetti inconcludenti in giornate tutte simili, tutte calate in un eterno presente. Lo stesso Eterno Presente che è il tempo del mito e della tragedia sacra messa in scena da Pasolini ne il Vangelo secondo Matteo e poiin Edipo Re e Medea.
La scelta di raccontare storie del passato sembrerebbe contraddittoria, ma si consideri che Pasolini intuisce presto che il mondo mitico e sacrale della civiltà contadina preindustriale, con i suoi riti senza tempo, sta per essere spazzato via da un progresso avido di futuro.
La scelta stessa di fare quei film si spiega con la necessità di congelare in un presente di celluloide la cultura di mondo ormai estinto (il mondo tragico del mito) e un’umanità destinata a camminare come un fantasma cieco, condannata all’esilio e a vagare suonando il flauto per le borgate italiane (Edipo Re).
Registrare la realtà presente è la stessa urgenza che lo induce a portare la cinepresa, a interrogare le persone comuni in Comizi d’amore o gli studenti neri nei suoi appunti per un’Orestiade africana.
La poetica naturalista di Pasolini si esprime anche con l’aspirazione ideale a realizzare un cinema fatto solo di piani sequenza. Per Pasolini la vita reale è in soggettiva o per meglio dire è una serie di piani sequenza nei quali «La soggettiva è dunque il massimo limite realistico di ogni tecnica audiovisiva». Un cinema che voglia essere naturalista dovrebbe dunque evitare il montaggio e replicare il reale solo attraverso piani sequenza in soggettiva. Eppure Pasolini tradisce artisticamente due volte la logica conseguenza di tale premessa.
Innanzitutto realizzando film in cui spreme la moviola del montaggio. Il punto è che per Pasolini, così come la morte è necessaria perché la vita d’un uomo acquisisca senso, il significato definitivo d’una sequenza (o più d’una) si realizza solo se questa è conclusa e messa in relazione con altre sequenze finite.
Il montaggio è sì la morte del cinema (della riproduzione audiovisiva naturalistica del reale) ma è altrettanto fondamentale che le sequenze in soggettiva “muoiano” perché ciascuna di essa abbia poi un senso (quello del film).
Il cinema insomma è l’arte del presente, ma un film ha senso solo come opera chiusa ed è quindi sempre al passato, un passato che si percepisce nel presente.
In secondo luogo Pasolini, prediligendo la ripresa lunga o il long take (si pensi alle lunghe inquadrature del volto di Laura Betti in Teorema) al piano sequenza vero e proprio. Un po’ perché ha sempre inteso il piano sequenza alla maniera di Bazin, cioè come un long take giocato sulla profondità dell’immagine (come nella scena di Kane bambino che gioca nella finestra sullo sfondo in Citizen Kane di Welles) un po’ perché il long take è più funzionale al montaggio rispetto a un unico lungo piano sequenza. Eppure l’immagine più netta d’un cinema viandante e al presente Pasolini la restituisce in due splendidi piani sequenza di cinque minuti in cui la prostituta Mamma Roma esce dall’ombra della notte e cammina verso gli spettatori raccontando, in due momenti di pura presenza, uno allegro e uno triste, il senso stesso d’una vita per la via.
di Amedeo Liberti
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