OBLAKA – I racconti del realismo magico – Capitolo II


Poco mi serve.
Una crosta di pane,
un ditale di latte, e questo cielo
e queste nuvole.
(Velimir Chlebnikov)

oblaka

CAPITOLO II – Mesyats [месяц]

Ci eravamo aggirati con ordine fra le tombe del monastero Aleksander Nevskij fintanto che rimasero da brave in fila, poi con movimenti selvaggi non appena le piante, obliterate le geometrie, avevano arso le lapidi di fiamme verdi lasciando qua e là scheletri di anziani mausolei carbonizzati. Io mi ero nascosto dietro la selce per metterle paura. Il suo sobbalzo mi fece ridere senza controllo, solo ora imparo a ridere come d’accapo.

Parlo di Diane, la ragazza che parlava francese ed era l’unica nell’albergo a leggere sempre un libro. Eravamo arrivati con lo stesso aereo e già lì per quel suo amuleto di carta, pagine e copertina il mio cervello l’aveva memorizzata usando uno sguardo come segnalibro.

Quel giorno pioveva solo quando entravamo al coperto: nella chiesa, dentro la cappella, per mangiare. I momenti sopravvissuti fra una salva e l’altra ci portarono in mezzo alle bancarelle di una sagra del miele, con teste di donne incartate in foulard colorati, doppie maniche all’avambraccio e grembiuli dal risvolto prospero che spargevano senza gelosia assaggi di miele, lipa, propoli e dolci pastoie rubate anzitempo alle api.

«Forse non ci siamo incontrati per caso», mi fingo sempre misterioso quando non so che dire. Speravo che lei mi aiutasse a non lasciarsi ingannare da quel grande classico.

«Come mai?».

«Perché ti piace leggere», ero un portiere pronto a lanciarsi prima della palla, «e poi ami disegnare».

«Sì, i BD!».

Chissà come sarebbe tramutato il mio sgorbio, catturato dal racconto del mio ospite, dopo essere passato nelle mani di una fumettista francese dal seno prodigo, gambe forti, riccioli incontrollabili e passioni culturali ancora incapaci di colonizzare i propri modi da civetta.

Stavo già per raccontarle del gioco fra me e il mio ospite, ma per lei sarebbe diventato un jeu e in più, tirando fuori i cento rubli per comprare del tè della taiga in una delle bancarelle, dalla tasca sbucò una piccola icona che ci aveva regalato poco prima una signora all’uscita della cappella. L’immagine ieratica era avversa alla scritta sul retro con la data 2008. Si risvegliò in me quell’assordante mantra: Sempre identiche, secolo dopo secolo… che orrore vedere nella mia Musa un Endimione sempre giovane, eternamente vecchio. Era un cattivo presagio, in più guardavo le nuvole ed erano immobili.

Diane non capiva nulla di tutto ciò, altrimenti non sarebbe stata felice per l’assenza del vento a schernire i suoi riccioli. Decisi allora di aspettare, limitandomi a raccontarle la storia della strega di Endor e per il resto di attendere quelle ore che avrebbe forse afferrato un po’ meglio, le ore di Diana.

Per la sera infatti avevo prenotato per uno, passando lungo la Bolshaya poco lontano dalla chiesa di San Nikolai, ma una volta arrivati, all’indice della cameriera dai riccioli indecisi fra il biondo e il rossiccio, aggiunsi un altro dito. C’era Diane. Passò di fianco alla cameriera per sedersi di fronte a me, mentre i loro capelli elettrici lottavano come due gorgoni forestiere.

Sulla parete alla mia sinistra il disegno storto di due amanti. Eppure non sembrava affatto che il mondo fosse fuor di squadra né tantomeno, quand’anche, che toccasse a me rimetterlo in sesto. Vedevo bene il pesce nel mio piatto riposarsi tranquillo sul letto di zucchine e asparagi, e io lo imitavo servendomi del vino bianco georgiano come da un biberon, mentre Diane sfogliava ancora il menù persa fra le immagini di impressionisti russi delle ultime pagine. Era quello il segnale.

«Ecco perché ti sono brillati gli occhi quando ti ho detto che mi piace disegnare!», esclamò dopo avermi sentito raccontare dell’esperimento in cui volevo coinvolgerla, «e chi è questo tuo ospite?».

«Non ne ho idea», risposi rincuorato dalla necessità di restare sul vago, «non so chi sia né come si chiami, per me è soltanto… il mio ospite».

«Ma esiste davvero?», mi sfida con un sorriso mentre io titillo un fiore raccolto da terra di cui ignoro il nome.

«Te lo posso giurare».

«Mmh», guaì come spesso le donne fanno in conversazione con un vicolo cieco, «raccontami la storia che dovrei disegnare, almeno», provò a smarcarsi.

«Te l’ho già raccontata», risposi con un tono d’ovvietà abbastanza fuori luogo, «è quella della strega di Endor».

«Ah, quella… sembra l’ideale per un disegno. Non nasce tutto da un dipinto del Louvre?», quanto si annoia questa femme.

«Così mi ha raccontato il…».

«Il tuo ospite», scimmiottò ancora un po’ incredula, poi aggiunse infantile: «Be’, allora raccontamene un’altra mentre ti faccio questo benedetto disegno», e tirò fuori dallo zaino crayon e papier.

«Così, dal nulla? Ma bisogna dirne una alla volta», protestai.

«Courage! Sei uno scrittore anche tu, no? Lasciati ispirare», ridacchiò indicando sopra la mia testa. Sul soffitto molto basso avevano appeso la foto di una luna fotografata da un telescopio. «Oggi è anche piena!».

«Lo sai invece che domani ci sarà un’eclissi?», tergiversai.

«Domani, davvero?».

«Lunedì 7 agosto».

«Lunedì… proprio il giorno della luna». Alla cosa più semplice non avevo pensato. «Come si dice “luna” in russo?», proseguì lei chinandosi intanto sul foglio.

«Luna».

«Ah!», sbuffò delusa, «speravo qualcosa di più strano».

«Si può dire anche mesyats, che sta poi per “mese”… giusto il tempo in cui rimarrò qui in Russia».

«Allora, questa storia?», si lagnò Diane per la piega romantica dei miei pensieri, esagerando la ribellione con tratti estrosi sul foglio. Il mio coito melanconico però era scollinato, il fatto è che dall’ultima eclissi erano passati appena pochi mesi, tutto nella sera del mio compleanno. Ero andato con lei, proprio quell’altra che non riuscivo a descrivere, non riuscivo a disegnare, non riuscivo ad avere, soltanto con lei di fianco a un canale in prima fila per lo spettacolo del buio nel buio, ma le nuvole quella volta avevano serrato il palco, aggiungendo al buio una terza negazione e dando alla serata un calcolo in difetto.

Anche la sera con Diane le oblaka aggredivano in tutti i modi la luna piena, ma lei rimaneva a vegliare di fianco al suo Endimione mentre la luce rubava ai nembi il tepore di una sottoveste orientale.

«Va bene. Una storia breve, però», concessi.

«Anche perché io qui ho quasi finito», l’estrosa ribellione era proprio un successo.

«Si tratta giusto di una storia sulla luna, scritta due anni fa quando sono andato sull’isola d’Elba».

Posai il fiore nella piega della tovaglia e la lingua in quella della memoria…

[***]

L’ultimo sorso di luce

Una scia di sale galleggiava sull’acqua e vi rimaneva anche dopo averla leccata, con lo sguardo, fino alla sorgente. Era il riflesso della luna sul mare.

Mi accorgevo di aver dato inizio a un lungo bacio, perché quel riflesso era in realtà la lingua della luna stessa, tradita dal suo sapore dolce, inaspettato rispetto a quel sale da lei sparso per attirarmi.

La lingua era lì pronta a parlare, proprio quando io, appena entrato in quella casa sul mare per la prima volta, senza nemmeno aver avuto il tempo di accendere la luce, avevo sperato che quel bagliore dalla finestra fosse a me che sorridesse.

«Vieni più vicino…», mi disse. Non aspettavo altro.

*

Non conoscevo i percorsi del bosco necessari a espugnare la spiaggia, eppure non credo di aver sbagliato neanche un passo. Già mi trovavo seduto su di una roccia che, curiosa, si sporgeva sulla baia. Dietro le spalle il dorso scosceso di quel bosco generoso e leale.

«Guardami, sono bella anche così nuda?».

«Luna, luna piena! Sei bella come i dettagli delle ragazze di cui ci si innamora! Dimmi un segreto adesso».

«Non ne conosco, ho solo dubbi da offrirti, mi puoi aiutare?».

«Io, luna? Ti ho cercata a lungo e sognata come una rivelazione. Cos’ho da insegnarti? Dov’è la natura della tua perfezione promessami?».

«Questa mia luce non ti basta?».

«Ma da dove viene? come posso riprodurla?».

«È il messaggio del mio sposo, di più non so».

«Chi?».

«Il sole. È la collana che mi ha regalato per giurarmi il suo ritorno, ma quando ogni sera la riguardo allo specchio, lo vedo dileguarsi di nuovo, ogni volta, al mio risveglio, e rimango sola nella notte della mia luce».

«Serviti di me! Domani lo vedrò di certo, lasciami un messaggio per lui».

«No, io gli piaccio così. Ama i miei silenzi».

«Perché li hai infranti con me stasera, dunque?».

«Per chiederti questo: come sono gli altri, i tuoi simili? Vi vedo sempre fra di voi. Com’è vivere insieme ai propri simili? Cosa c’è oltre la solitudine?».

«Luna mia, mia luna piena! Ritarda la tua crescita e aspetta un’altra notte. Illumina un altro che ti possa servire come vorrei. Io degli uomini non so quasi nulla».

«Sei forse un essere illuminato?».

«Nemmeno, altrimenti non avrei leccato i tuoi bagliori salati sparsi sul mare».

«Ma anche da qui, nonostante la mia collana, intravedo una grande luce in te».

«E cosa te ne faresti mai tu, già splendida?».

«Tienimi compagnia, non mi vedi così sola?».

«Sola dici? Tu, regina vegliata da una corte?».

«Dove, di chi parli? Osi prenderti gioco di me? Ti riferisci forse a quei due bianchi gabbiani, buoni solo a sbraitare per apprestarsi alla copula?».

«Oh Luna, quanti occhi hai?».

«Questo mio occhio di cristallo che ho schiuso su di te, ingrato!».

«Ora capisco… vòltati!».

«Cosa?».

«Vòltati, ti dico, e guarda laggiù: che teatro alle tue spalle!».

«Se è uno scherzo vedrai che… ohibò, chi è là!».

«Sono le stelle. Noi umani vi abbiamo sempre visto insieme e decantato in voi la famiglia della notte. Come potevi crederti orfana? Non ti sei davvero mai voltata?».

«E perché mai? E poi, così giovani e piccole, dovrebbero tenermi compagnia loro?».

«Ben più maestose e anziane di te, invece, e più sagge anche temo».

«E dov’erano in tutti questi miei anni di solitudine?».

«Sempre lì a cucirti un mantello di luce sulla schiena, senza mai offendersi se offrivi solo le spalle. Il tuo sposo, sai, è uno di loro».

«Ah! potrò interrogarle sulle sue origini e farmi raccontare ogni sera una sua impresa…».

*

«…Visto?», proseguì la luna, «almeno di fronte ci avevo visto giusto, quando ho scrutato in te. Scegli una ricompensa».

«Come ricompensa scelgo che sia tu a scegliere una ricompensa per me, io sono perso nel tuo sguardo e non provo desideri».

«Hai preso la via dell’illuminazione, non sbagliavo. Allora vòltati tu, adesso».

«Là, nel bosco, cos’è?».

«Le tue stelle, le tue compagne».

«Lucciole ovunque! Danzano nelle tenebre! Gli hai donato tu quelle scintille?».

«No».

«E chi allora, il sole?».

«Tu lo hai fatto».

«Come?».

«Per ammirarmi hai soffuso la tua luce e adesso è fioca abbastanza perché i lampi attorno a te si rivelino. Anch’io, fra qualche giorno, con la mia falce e il mio chiarore più tenue, potrò parlare con le stelle».

«Ed io con le lucciole, per scoprire l’illusione di questa falsa solitudine».

«E allora ricordati: se la laverai via nel tuo bagno di luce, non scordarti di berne poi l’acqua, fino a sentire il rumore dell’ultimo sorso che gorgoglia nel buio…».

[***]

oblaka - i racconti

«Uffa, un’altra storia molto romantica. Ho capito adesso perché vi andate così a genio, tu e il tuo… ospite».

Con la forchetta in mano Diane giocherellava a far uscire sul piatto le viscere dalla torta, stanca di aver trattato a quella stregua anche il foglio sotto i colpi della matita. L’aveva preso per un jeu, come previsto. Sebbene a lei stavolta fosse lecito usare la gomma, le sue linee di Arianna distesero un filo per uscire senza cancellature, senza ripensamenti dal labirinto delle forme, quasi fosse un rebus da risolvere anziché una faccenda di fantasia. Era venuta una vignetta dai tratti essenziali, che mostrava un giovane pittore dal sorriso smagliante mentre usa la sua tela come uno scudo per fronteggiare una donna dal volto stupito per la sua audacia.

«Ma come, Diane, sei francese e snobbi i romanticismi?», la sgridai.

«Appunto, ne ho abbastanza», rispose annoiata dall’agonia della torta, mentre il disegno accanto a lei sembrava ormai far le veci al tovagliolo, «magari invece con una vignetta come questa la prossima persona che incontrerai ti racconterà una storiella divertente».

È strano. Non più tardi di quel pomeriggio, di ritorno dal monastero ci eravamo fermati a bere del tè e io mi ero trovato così a mio agio con quella Diane, avevo sentito voglia di parlarle senza obblighi, quasi allungarmi sui miei lucidi pensieri sempre pronto a catturare la realtà pur di non assentarmi da lei. Adesso invece, scesa la notte, la civetta si era svegliata, il gufo in me aveva aperto gli occhi e il suono dei grilli di una casa in legno che scricchiola mi cominciava ad allarmare.

Diane si tuffò in bagno.

«Tutto bene?», sentii dal nulla.

Con la cameriera arrivò una risacca di capelli e un rimbombo nella voce insolito per la sua domanda consueta.

«Sì, grazie», risposi perplesso, tanto da farle aggiungere: «Scusi, sembrava volesse chiedere qualcosa», e subito fece per andarsene.

«Ero solo sovrappensiero, magari avessi una domanda». Questo la fermò.

«Perché?».

«Sembriamo in cerca di risposte, senza neanche sapere cosa chiedere».

«È vero, ha troppi pensieri in testa», sorrise trovando nel mio bicchiere vuoto il pretesto per fingere di sparecchiare e trattenersi ancora un momento.

«Ma per fortuna ci sono cose con cui distrarsi!», dichiarai portando dalla mia parte la torta avanzata da Diane, prima che venisse smaltita dal quel suo pretesto.

Quando Diane tornò dal bagno ci trovò a scambiarci consigli letterari. La cameriera era fresca di università e mi vidi incoraggiato a leggere un racconto di Brodskij. La seconda risacca di capelli che seguì a quella di prima era diversa. Diane tornò in patria con un piglio d’Agamennone e la cameriera disparve. Per lenire il golpe fallito le parlai di Venezia. Entro due giorni sarebbe andata a visitarla e io ci avevo quasi vissuto per un anno quando mi ero iscritto al Ca’ Foscari. Se passava da quelle parti non poteva mancare un’osteria dalle polpette eccezionali nel quartiere Cannaregio.

Tutta colpa di un cd con canzoni italiane se il ristorante raggiunse infine l’inerzia prechiusura piatta come la superficie di uno stagno. Per non aprire sottintesi, salutai Diane sbrigativo ringraziandola per il disegno.

«Sono sicura… troverai altre persone interessanti per il tuo jeu», il suo francese l’aveva tradita, «segui soltanto le coincidenze».

Non servì a nulla quel suo sguardo furbo. Senza pensarci risposi: «Sempre che non siano inquietanti». Caddi poi nella seconda tentazione di riempire il vuoto seguente, col misero scopo di chiarirmi.

«Sai, oggi mentre visitavo le carceri di Pietro e Paolo un mio amico mi ha scritto di avermi sognato imprigionato in Siberia. Una coincidenza inquietante».

«A volte la libertà assume tinte oscure».

Profetica Diane, sei anche Cassandra adesso?

Non lo sapevo ancora, ma qualche giorno dopo avrei osservato un dipinto simile a quelle ultime parole. Mi limitai a pensare di aver sottovalutato l’intelligenza di quella capricieuse, ma in albergo rigirai il suo disegno un paio di volte fra le mani, prima di addormentarmi.

di Federico Filippo Fagotto

Trovate qui il primo, il terzo, il quarto, il quinto, il sesto, il settimo capitolo e l’epilogo.

Autore

  • Federico Filippo si risveglia dal sonno dogmatico nella bella facoltà di Filosofia in Statale e si riaddormenta con gli studi a Venezia. Tornato a Milano, dopo il gong della laurea in Scienze Filosofiche, inizia collaborazioni con la cattedra di Estetica e nel frattempo, in fuga dall’accademismo, ha la fortuna di radunare un gruppo di ragazzi pieni di stoffa e fondare la rivista di arte e cultura La Tigre di Carta, cui segue l’Associazione culturale La Taiga che gestisce il teatro e circolo culturale Corte dei Miracoli. Fra editoria ed eventi, gioca col violoncello il bridge e lo yoga. Tutto ciò non fa bene alla salute... meglio scrivere!

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