Quest’articolo è il primo di una serie di contributi preparati per la serata “COS’È UNA CRISI? – Agorà a cura di Philosophy Slam”, tenuta il 20 ottobre 2021 alla Corte dei Miracoli di Milano.
Quella sera è iniziata ciò che speriamo sarà una lunga serie di momenti di discussione collettiva sui temi oggi “caldi” nel dibattito politico, culturale, sociale. Dal concetto di “crisi” a quello di “cultura”, dalla funzione della scienza al problema della libertà…, abbiamo cercato e cercheremo di sviluppare sempre di più un percorso di riflessione critica sulla realtà in cui viviamo.
Il prossimo incontro, che prenderà il nome di “Sic et non-Simpliciter”, si terrà il 13 novembre p.v., sempre alla Corte dei Miracoli.
COS’È UNA CRISI?
Se c’è un termine oggi centrale nel dibattito pubblico questo è “crisi”. Crisi sanitaria, crisi ecologica, crisi economica, crisi migratoria, ma anche crisi culturale, politica, sociale. La crisi sembra investire ogni ambito dell’agire umano. Eppure poche sono le occasioni per riflettere sulle implicazioni di questo concetto. Cos’è la crisi? Epoca passeggera di chiaroscuro oppure condizione perpetua in cui siamo immersi? Terremoto che nega il passato oppure occasione rivolta al futuro? Il tema della crisi sarà proposto secondo tre declinazioni: crisi come apertura politica, la dimensione politica della crisi, crisi della biodiversità.
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Chiunque fosse interessato a contribuire al dibattito con un proprio articolo può inviarlo per mail a: collabora@latigredicarta.it.
Etimologicamente la parola “crisi” viene dal greco. Κρίνω (krino): separo, taglio, divido. La crisi – momento di sconquasso, in cui l’esistente viene messo radicalmente in discussione – è anche scissione, frammentazione, apertura.
Per comprendere la crisi è necessario comprenderne la struttura ontologica. E la struttura ontologica della crisi è essenzialmente una struttura temporale.
Facciamo un passo indietro. Siamo all’inizio dell’Ottocento, nel 1818 per la precisione, nella Germania preunitaria. Georg Wilhelm Friedrich Hegel diviene professore di filosofia a Berlino. Ha quasi cinquant’anni e si è già fatto notare per due opere che resteranno nella Storia: la Fenomenologia dello spirito e la Scienza della logica.
L’unico punto, per ottenere il progresso scientifico, […] è la conoscenza di questa proposizione logica, che il negativo è insieme anche positivo, ossia che quello che si contraddice non si risolve nello zero, nel nulla astratto, ma si risolve essenzialmente solo nella negazione del suo contenuto particolare, vale a dire che una tal negazione non è una negazione qualunque, ma la negazione di quella cosa determinata che si risolve, ed è perciò negazione determinata[1].
Così scrive Hegel. Io sono ciò che sono perché non sono questo tavolo, questi fogli, voi… Di più. Io sono ciò che sono perché non sono più ciò che ero ieri e non sono ancora ciò che sarò domani. Il negativo fonda la possibilità del positivo, la negazione permette l’affermazione. La logica dialettica rifiuta per principio la staticità, l’immobilismo, la placida quiete. È logica del movimento, è logica del tempo. La comprensione della struttura temporale della crisi passa dall’adozione di una logica dialettica.
Dicevamo la negazione: ciò che nega si oppone – ossia contraddice – l’affermazione. Si parva licet proviamo ad andare oltre Hegel. Le contraddizioni della realtà, per essere pensate realmente in modo dialettico, ossia non statico, devono essere temporalizzate. Devono cioè essere pensate come tendenze.
Tendenza, ciò che è «relativamente permanente», che non è meramente congiunturale.
Nello studio di una struttura occorre distinguere i movimenti organici (relativamente permanenti) dai movimenti che si possono chiamare di congiuntura (e si presentano come occasionali, immediati, quasi accidentali)[2].
Non solo. Congiuntura e permanenza hanno a che fare solo con una quantità di tempo, è una misura della durata, ancora troppa astratta. Serve armarsi di una seconda diade: «fare epoca» e «durare». «È da notare come troppo spesso si confonda il “non far epoca” con la scarsa durata “temporale”; si può “durare” a lungo, relativamente, e non “fare epoca”»[3]. Ossia, si può durare a lungo ma non costituire una tendenza.
Nel suo porsi, la tendenza è immediatamente negata da “controtendenze”, che – attenzione! – non sono tendenze contrarie ma il portato negativo di ogni tendenza.
Facciamo un esempio. In una società capitalistica, la tendenza fondamentale è quella di aumentare i profitti. Per farlo tutti i capitalisti sono portati ad abbattere i tempi di produzione. Ma minore è il tempo di produzione, minore è il costo unitario della singola merce prodotta quindi, potenzialmente, minore è il profitto. La controtendenza opera come conseguenza contraddittoria della tendenza.
Opera sotto traccia, scava sotterranea nella vita della società, invisibile a un occhio distratto. Ma scava. E a un dato momento, imprevedibile ex ante – ma «che può essere misurato coi sistemi delle scienze esatte o fisiche»[4] ex post – emerge.
Lo sviluppo quantitativo e qualitativo delle tendenze e delle relative controtendenze esplode in forma distruttiva: è la crisi. Momento di vera e propria scossa tellurica, in cui i caratteri “distruttivi” già presenti nella società subiscono una violenta accelerazione e quelli “costruttivi” rallentano.
L’esito di questo violento sconquasso però non è mai determinato a priori: non c’è possibilità di pre-vedere l’esito della crisi.
La crisi infatti può risolversi nella direzione di una ridefinizione della società, nell’affermarsi di nuove tendenze e nuove controtendenze, di un nuovo mondo. Si apre così un periodo di rivoluzione sociale, di trasformazione radicale dell’esistente.
Oppure la società si invischia in una spirale che, incanalando le contraddizioni, si mantiene sul terreno dei rapporti vigenti, senza essere in grado di superare le ragioni stesse della crisi. Tutto sembra congelato in un eterno presente, in una stanca reiterazione di ciò che esiste. È questo, sia detto per inciso, proprio il tipo di dinamica che stiamo vivendo da decenni.
Non c’è la possibilità di prevedere il futuro. Ma c’è la possibilità di pre-figurarlo. Ossia di dare una forma, una figura determinata al processo in atto. L’attività politica – cioè l’attività teleologica, condotta secondo un fine, l’attività progettuale – di un soggetto collettivo può decidere in quale direzione si svilupperà il processo sociale. E lo può fare perché essa stessa è parte di quel processo e sa, moderna Cassandra, cosa potrebbe accadere se non agisse. Ne è parte attiva e cosciente, capace di valutare le linee di fuga che in ogni momento si aprono e i futuri virtuali che in ogni momento si presentano, agendo affinché uno solo si realizzi. «Scoppierà una nuova guerra, a meno che…». «La distruzione dell’ecosistema renderà la vita umana sempre più difficile, a condizione che…». «La crisi economica si abbatterà sulle classi subalterne, tranne se…».
Il futuro non è un tempo dell’indicativo, ma dell’ottativo: del potenziale, del possibile. È l’apertura, la piccola porta da cui – per parafrasare Benjamin – può entrare in ogni momento il Messia.
E allora il vecchio muore e il nuovo nasce.
Note
[1] G. W. F. Hegel, Scienza della logica, trad. di A. Moni e rev. di C. Cesa, Laterza, Roma-Bari 1974, p. 36.
[2] A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, Q13, §17, p. 1579.
[3] Ivi, Q14, §76, p. 1744.
[4] Ivi, Q13, §17, p. 1583.
Qui il secondo articolo.